“Danzare nella pioggia”. Fondamentale ma non sufficiente

 
 

“La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia". Questo verso di Khalil Gibran (1883-1931) ha conosciuto una nuova (e meritata) popolarità dopo che è stato usato da Gino Cecchettin nel discorso pronunciato al funerale della figlia, Giulia, giovane vittima di femminicidio il mese scorso.

E’ un verso toccante. Evoca la resilienza necessaria non tanto per affrontare le scosse devastanti, quanto per muoversi nelle continue sfide. Non invita ad essere eroi o super-uomini/donne, ma a danzatori sul bagnato. Se la danza è associata al movimento, il punto è di continuare a vivere anche quando piove, cioè spesso, e di non cessare di farlo anche quando le condizioni esterne non sono ottimali.

Il verso di Gibran è forse il punto più alto che una cultura umanista possa raggiungere. Essa invita a non abbattersi nelle difficoltà, a mantenere un equilibrio nelle turbolenze, a non coltivare risentimenti e amarezze. Positivamente, esorta a rialzarsi dopo una caduta, a continuare a camminare dopo gli ostacoli, a trovare stimoli e gioie nelle avversità.

C’è un senso in cui anche l’etica cristiana invita a “danzare nella pioggia” riecheggiando il verso di Gibran. La Bibbia incoraggia ad essere pazienti nella sofferenza (Romani 12,2), consolati nelle afflizioni (2 Corinzi 1,3-4), perseveranti nella corsa della vita (Ebrei 12,1), gioiosi nelle afflizioni (Giacomo 1,2-4): sono tutte intersezioni con il ballo della resilienza umana evocato dalla poesia di Gibran.

In un certo senso il poeta prende a prestito del “capitale” spirituale del cristianesimo e ne dà una versione “spirituale” ma laica, immanente, antropocentrica. Essa dice che le forze per danzare vanno trovate in noi stessi e che le risorse per stare in piedi sulla pioggia devono far leva sulle nostre gambe. Insomma, ce la dobbiamo fare da soli.

Diversamente, l’invito biblico a danzare sulla pioggia è tutto basato sulla scoperta delle risorse di Dio e sul costante nutrimento dalla provvidenza divina. Possiamo essere pazienti nel dialogo con il Signore (la preghiera), consolati dalle consolazioni di Dio, perseveranti fissando lo sguardo su Cristo, gioiosi chiedendo saggezza dall’alto. In altre parole, la danza non si balla da soli. E’ un ballo di gruppo: c’è Dio uno e trino (Padre, Figlio e Spirito Santo) e c’è la compagnia dei credenti. E’ una comunità danzante.

L’altro punto di rottura del cristianesimo riguarda la prima parte del verso di Gibran: “la vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta”. Vero è che bisogna imparare a danzare sotto la pioggia, ma prima o poi la tempesta arriva e bisogna prepararsi per tempo. Nella Bibbia, la morte è vista come il re degli spaventi (Giobbe 18,14) e dopo la morte c’è il giudizio di Dio (Ebrei 9,27). Il “giorno del Signore” è associato ad immagini che assomigliano ad una tempesta: quando Dio fa e farà giustizia eseguendo il suo giudizio sul peccato. In quel giorno, non basterà danzare sulla pioggia: staranno in piedi solo quelli che sono “in Cristo”, i credenti. Gli altri, quelli che hanno cercato di barcamenarsi sulle loro gambe, saranno spazzati via e cadranno rovinosamente.

E’ bene imparare a danzare sulla pioggia (con la forza di Dio e nel cerchio danzante della chiesa) ed è ancora meglio essere al riparo della tempesta del giudizio di Dio (grazie all’opera di Cristo ricevuta per fede soltanto). Questo il verso di Gibran non lo dice. La poesia della Bibbia sì.

P.S. Nel suo discorso, Giulio Cecchettin ha detto di non saper pregare e non ha mai fatto riferimento diretto o indiretto a Dio. Il suo è stato un discorso alto di una persona solidamente ancorata ad una visione ispirata ad una versione moderna dello stoicismo. Per contro, l’omelia del vescovo di Padova, mons. Carlo Cipolla, è stato uno specchio del cattolicesimo romano contemporaneo: presupponeva che siamo già tutti cristiani anche se non lo siamo, non ha invitato al pentimento dal peccato e alla conversione, ha fatto riferimento vago a Gesù Cristo senza incisività, ha indicato come orizzonte sociologico di speranza una “società migliore”. L’omelia è stata un discorso di un rappresentante della cristianità, ma più vuoto di quello del laico Giulio Cecchettin.