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Effetto Domino’s. Anche la chiesa rischia?

L’era della pizza americana in Italia sembra giunta alla sua conclusione. Secondo recenti notizie, la catena di ristorazione statunitense Domino’s Pizza che nel 2015 aveva deciso di allargare gli orizzonti del proprio business in Italia, ha definitivamente chiuso i battenti. Da Torino a Roma, da Milano a Parma, 28 negozi hanno abbassato la saracinesca accumulando un debito di 10,6 milioni di euro. Ma non è un caso isolato: in passato altri marchi americani, sia nel settore alimentare (la catena di gelati Haagen Daz) che di abbigliamento (Gap, per citare l’ultimo) hanno patito la stessa sorte.

A primo acchito uno potrebbe dare la colpa al paese “ospitante”, accusando l'economia stagnante italiana e l’alta tassazione che fa annaspare i piccoli-medi imprenditori. Questi motivi costringerebbero lo straniero ben volenteroso di investire capitale a scappare a gambe levate dopo una stagione poco redditizia. Altri ancora, potrebbero attribuire le chiusure alla pandemia che ha colpito tutto il settore terziario senza guardare in faccia a nessuno. Nonostante ci sia un fondo di verità in entrambe le cause, in un recente articolo del Corriere della sera pubblicato il 28 agosto intitolato “Da Domino’s a Gap: perché le grandi catene Usa lasciano l’Italia”, Anna Zinola ha provato a dare una spiegazione ulteriore e convincente del fenomeno. 

Zinola nota innanzitutto che le difficoltà maggiori sono nel settore dell’abbigliamento perché è un ambiente già di per sé competitivo nel quale i brand statunitensi devono gareggiare con lo stile e la qualità produttiva delle prestanti e famose case di moda italiane. Invece, nel settore alimentare, le realtà che hanno sofferto di più sono state quelle che hanno proposto “un’offerta standardizzata, senza adattarla ai gusti della clientela nostrana”, mentre “chi ha saputo declinare il menù in chiave locale, arricchendolo di proposte e ingredienti tipici della cultura gastronomica italiana, è stato premiato”. In effetti, il conservatorismo alimentare degli italiani assume una posa repellente nei confronti di qualsiasi aggiunta, modifica o novità che scalfisce la “purezza” e l’“integrità” tradizionale di alcuni piatti (uno su tutti, la pizza con l’ananas che ha generato pareri contrastanti).

In altre parole, le attività che puntano sul brand senza essere sensibili alla realtà locale e senza contestualizzare il loro prodotto, tenendo conto della cultura del posto, adottano una strategia “stampino” che a lungo andare dovrà cadere ai piedi di tradizioni e abitudini culinarie atavicamente radicate nel sostrato della società. Invece, chi, pur mantenendo la propria identità e unicità, si sforza di riflettere sulla realtà che lo circonda e si confronta con gli autoctoni, è in grado di proporre soluzioni che incontrano i gusti del cliente, riuscendo così a rimanere stabilmente a galla. L’esempio lampante è McDonalds, che è riuscita, anche per via della sua storica presenza in Italia dal 1985, a mantenere la forma consueta di fast food e al contempo cambiare la sostanza di alcune proposte del menù introducendo “materie prime locali (dal pecorino dop al parmigiano reggiano)” e inserendo “piatti pensati per il consumatore italiano (come le insalate)”.

In effetti, tenendo conto delle dovute distinzioni, anche gli evangelici, in linea con il Grande Mandato (Mt 28, 16.20), adottano “strategie” diverse per la predicazione della Parola, la fondazione di nuove chiese e la loro conduzione. Nella Scrittura, impariamo da Atti 17 che Paolo, prima di parlare agli ateniesi, “lesse” la città nella quale si trovava “passando e osservando gli oggetti” del loro culto (v. 23). Da lì, riuscì a traslare in modo calzante il discorso passando dal “dio sconosciuto” a cui avevano dedicato un altare, al vero “Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso” (v. 24). L’apostolo mantenne la sostanza del vangelo declinandone la forma per poter dialogare con i cittadini di Atene e far sì che il Signore aprisse una breccia nel cuore di alcuni astanti. Avendo tutto questo in mente, e considerando la mia giovane età e inesperienza, vorrei elencare una serie di domande nella speranza che suscitino, in me in primis, riflessioni sulla fondazione di nuove chiese e la conduzione di quelle già esistenti: 

  • I missionari che provengono da un contesto straniero, desiderosi di proclamare il Vangelo in Italia, si confrontano seriamente con la cultura e le tradizioni, e intavolano conversazioni con coloro che vivono e conoscono la realtà del paese? 

  • Le chiese che vengono fondate adottando interamente e invariabilmente il modello della madrepatria, non rischiano di trovarsi a lungo andare come pesci fuor d’acqua incapaci di confrontarsi con la cultura e la realtà circostante?

  • Le grandi aziende hanno un marchio global che si declina a seconda della specificità local, creando così una sintesi glocal. Similmente, la chiesa globale, formata dai credenti, è stata marchiata una volta per sempre da Cristo Gesù e proclama lo stesso Vangelo nella sua specificità locale e nazionale. Le chiese locali interagiscono con altre chiese nazionali, internazionali e mondiali, riconoscendo la loro unità nella missione proclamatrice del Vangelo?

  • Le aziende straniere cercano di collaborare con e di assumere il più possibile persone locali che conoscono la realtà che li circonda. Nelle chiese già esistenti si instaura una sinergia tra pastori, anziani e diaconi autoctoni e stranieri che vogliono servire la chiesa in Italia con i loro doni, le loro capacità e conoscenze particolari? 

  • Le chiese congregazionaliste, facenti parte di unioni e di reti, riescono, pur mantenendo la sostanza del Vangelo e delle loro confessioni teologiche, a declinare la forma a seconda del contesto particolare in cui si trovano? 

  • I sermoni cercano di tradurre l’insegnamento biblico con applicazioni inerenti al contesto locale e nazionale nel quale la chiesa si trova? 

  • Le preghiere personali e cultuali sono standardizzate e avulse da qualsiasi connessione con la realtà o ci sono richieste che sono sensibili alla realtà di cui fanno parte? 

Per non scivolare nell’effetto Domino’s, queste domande vanno prese sul serio. 


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