Firenze e Rinascimento (I). La tentazione di elevare l’uomo per annichilire Dio
L’arte non è neutrale. Che lo si voglia o meno, essa veicola e informa, implicitamente o esplicitamente, una determinata visione del mondo.
Talvolta è tangibile nell’opera artistica stessa, altre volte bisogna scavare più a fondo analizzando la biografia dell’artista e il contesto storico-culturale nel quale opera(va) per capire (od ipotizzare) il pensiero che si cela dietro ad una data creazione.
Così è per l’arte di Firenze, emblema del Rinascimento italiano e tappa di un mio recente viaggio. Del Rinascimento, di Firenze (ma non solo) e della sua arte ne parla Francis Schaeffer in How Should we Then Live? (1976), libro diventato più noto con l’omonimo film uscito un anno dopo (1977).
In tredici capitoli, il fondatore dell’Abri fa un excursus dei diversi periodi storici dimostrando che il declino morale e sociale dell’Occidente non sia stato altro che il risultato dell’abbandono di una visione cristiana del mondo. Dopo aver parlato dell’Impero romano e della sua immoralità endemica, del Medioevo e del compromesso dannoso tra pensiero cristiano e aristotelico, Schaeffer dedica il terzo capitolo al Rinascimento, culla dell’umanesimo.
Se da una parte il pensatore evangelico americano elogia la creatività-versatilità incontestabile degli artisti (si pensi ad esempio a Leonardo da Vinci) e la loro apertura alla rappresentazione della natura, dall’altra egli puntualizza che il ritorno ad fontes del mondo greco-romano non abbia fatto altro che accentuare la vena antropocentrica dell’uomo.
Quest’ultimo non doveva essere visto come creatura dipendente dal Creatore, ma misura di tutte le cose, completamente autonomo e indipendente. Dio non era più una persona distinta dall’umanità. L’umanità stessa, con le sue riflessioni, capacità e tecnologie si era elevata a dio.
L’esempio più lampante è il David di Michelangelo, che non ha nulla a che fare con quello biblico. Qui ad essere al centro è l’uomo, il supereroe che si sta preparando per sconfiggere Golia il Filisteo. Sono i suoi muscoli “scolpiti” a garantirgli la vittoria. Le mani e la testa sono sproporzionate perché è l’uomo ad operare e a creare attraverso l’uso della sua ragione.
Egli non ha bisogno di nessun altro che di sé stesso, del suo intelletto e della sua praticità. Il David diventa così il modello ideale (vedasi l’influenza neoplatonica) che gli uomini devono disperatamente perseguire e le donne romanticamente ricercare.
Molto diverso, invece, è il Davide biblico. Scelto da Dio non per il suo aspetto, ma per un cuore rigenerato “Il Signore non bada a ciò che colpisce lo sguardo dell’uomo: l’uomo guarda all’apparenza, ma il Signore guarda al cuore” (1 Sam 16,7).
Combattente sì, ma fiducioso non nella propria forza ma in quella di Dio: “Il Signore, che mi liberò della zampa del leone e dalla zampa dell’orso, mi libererà anche dalla mano di questo Filisteo” (1 Sam 17, 37). Regalmente potente sì, ma debole di fronte al peccato (2 Sa. 11). Creativo sì, ma sottomesso alla volontà di Dio per la costruzione del Tempio (1 Cr 28).
È quindi evidente che il Rinascimento abbia avuto la tendenza di elevare l’uomo ed annichilire Dio. A farla da padrona era la cultura umanistica, a tal punto da compromettere la figura di Davide e trasformarla nella mascotte dell’antropocentrismo.
Mentre è innegabile la bellezza estetica di molte opere rinascimentali e le emozioni che generano, è anche bene tenere presente la cultura che le modellò, arrivando ad influenzare tutt’ora l’immaginario degli italiani, dove Dio continua ad essere assente e l’uomo a regnare spavaldo, forte della (falsa) convinzione di essere indipendente e misura del tutto.