“Gesù ci comanda di andare”. A 40 anni dalla morte di Keith Green (1953-1982)
“Gesù ci comanda di andare. Dovrebbe essere l’eccezione se restiamo. Non deve sorprenderci se andiamo avanti così lentamente dato che i figli di Dio rifiutano di ubbidire”. Questi sono due versi tra le canzoni più conosciute di Keith Green (1953-1982) di cui ricorrono i 40 anni dalla scomparsa. Green è stato uno tra gli interpreti della musica cristiana contemporanea (Contemporary Christian Music) della prima ora, un filone musicale sorto negli Stati Uniti alla confluenza tra i fermenti culturali degli Anni Sessanta e la vena popolare dell’evangelicalismo che trovava nella musica pop un linguaggio espressivo. I suoi concerti affollati e diventati cult, le sue canzoni inframmezzate a veri e propri sermoni, il suo stile pianistico battente, il suo messaggio evangelico radicale, la sua testa riccioluta e la sua barba folta, hanno fatto di Green una icona di quella generazione.
La sua morte improvvisa e tragica a soli 29 anni, insieme al figlioletto a fianco, mentre era al comando di un piccolo aeroplano, ha aggiunto un ulteriore alone di unicità alla sua figura ieratica. E’ come se un “profeta” fosse apparso sulla scena e scomparso presto, dopo alcuni anni di frenetica attività che si rispecchia nella sua tambureggiante discografia:
1977: For him who has ears to hear
1978: No compromise
1980: So you want to go back to Egypt
1981: The Keith Green Collection
1982: Songs for the Shepherd
1983: I only want to see you there
1983: The prodigal son
1984: Jesus commands us to go
“Gesù ci comanda di andare”. Sta qui, forse, la cifra della musica di Keith Green. E’ un messaggio di ubbidienza radicale, di consacrazione totale, di arresa senza scusanti alla volontà di Dio. Si può dire che Green anticipava l’incipiente secolarizzazione delle masse di giovani evangelici nordamericani (e non solo) che stavano crescendo come cristiani di nome: nati in una cultura protestante, avevano “accettato Gesù” con una preghiera ripetuta, erano stati battezzati (da bambini o da adulti poco importa), probabilmente frequentanti le attività della chiesa, ma già secolarizzati nel cuore, assuefatti ad un cristianesimo “comodo” che confermava i valori della loro cultura di riferimento, “consumatori” borghesi di una forma superficiale di sacro senza essere stati impattati dal fuoco bruciante dell’evangelo.
A questi “giovani” di allora, Green cantava le istanze dell’evangelo: forse senza aver letto Bonhoeffer, Green diceva che non esiste “una grazia a poco prezzo”, che essere cristiani significa essere discepoli/e, che seguire Cristo significa essere contro-culturali senza accampare diritti o invocare eccezioni. O si è cristiani in modo pieno o non lo si è. La cultura religiosa americana, con le sue sacche di evangelicalismo di massa e di facciata, ha avuto spesso bisogno di simili voci profetiche: si pensi a personalità più vicine a noi come David Platt (Radical) o Paul Washer che, sostanzialmente, dicono cose simili a quelle che Green cantava 40 anni fa.
Anche al di qua dell’Atlantico, Green ha avuto un suo pubblico. Gli anni in cui i suoi dischi circolavano erano quelli che seguivano il Congresso di Losanna sull’evangelizzazione del mondo (1974), i congressi missionari europei di “Missione” a cui partecipavano migliaia di giovani europei, le iniziative di agenzie come Operazione Mobilitazione e Gioventù in Missione che muovevano tanti giovani evangelici in tutto il Continente in pratiche sperimentali di missione diffusa. In quegli anni, la musica di Green significava qualcosa: interpretava un’istanza di radicalità (con punte di ingenuità) e rappresentava un’alternativa ad un evangelicalismo conformista (per chi veniva da culture protestanti di maggioranza) o ghettizzato (per chi veniva da situazioni di minoranza, come l’Italia).
Certo, la missiologia di “Gesù ci comanda di andare” è tanto radicale quanto unilaterale. Green dava a pensare che tutti sarebbero dovuti andare, cioè che tutti sarebbero dovuti partire per la missione. Si trattava di una missiologia semplicistica. Grazie a Dio, la riflessione missiologica evangelica ha più tardi sottolineato che il “grande mandato” di andare non è da intendere solo in termini geografici, ma anche culturali e vocazionali. Dove Dio ti chiama, lì devi andare e discepolare. L’importante non è dove vai, ma chi ti manda a fare cosa.
Con questi limiti e al di là dei gusti personali, la musica di Green rimane una boccata di ossigeno spirituale per chi l’ascolta. Sono passati 40 anni dalla sua morte, ma la chiamata radicale dell’evangelo ad una vita consacrata è urgente più che mai.