Il dogma della felicità nell’ultimo World Happiness Report
L’idea che la felicità rappresenti il fine ultimo dell’esistenza umana e il criterio guida delle politiche pubbliche è ormai un assioma della modernità. Filosofi, economisti e psicologi hanno contribuito a consolidare questa prospettiva, sostenendo che il benessere collettivo possa essere misurato e ottimizzato attraverso indicatori soggettivi di soddisfazione. Nazioni come il Bhutan hanno fatto molto in tale direzione, costruendo ad hoc un Indice della Felicità Interna Lorda (GNH), un sistema di misurazione del benessere sviluppato come alternativa al PIL, Prodotto Interno Lordo.
Recentemente il World Happiness Report[1], pubblicato dal Wellbeing Research Centre di Oxford, si propone di quantificare la felicità globale, promuovendo allo stesso tempo politiche finalizzate al suo incremento. Ma la felicità è davvero il bene supremo? La tradizione occidentale ha dibattuto a lungo questa questione. Aristotele, con il concetto di eudaimonia, concepiva la felicità non come un’emozione fugace, ma come il risultato di una vita virtuosa e orientata al bene. Alasdair MacIntyre ha successivamente criticato la tendenza contemporanea a ridurre la felicità a un costrutto politico depotenziato della sua dimensione morale. Richard Layard, tra i principali sostenitori dell’idea che la felicità debba costituire il principio guida della politica, ha affermato che tutte le leggi e le azioni dovrebbero mirare a massimizzarla. Questa visione implica, però, una semplificazione a mio parere pericolosa: la felicità, slegata da un quadro etico e intellettualmente sostenibile, diviene un concetto manipolabile, soggetto a processi di ingegneria sociale.
La prospettiva cristiana contraddice radicalmente questa narrazione, sostenendo che il fine ultimo della vita non è la ricerca della felicità fine a sé stessa, ma la gloria di Dio, che si manifesta nel servizio e nella giustizia.
L’egemonia della felicità come criterio politico poggia, inoltre, su basi epistemologicamente fragili. Gli studi sulla felicità si basano prevalentemente su campioni WEIRD (Western, Educated, Industrialized, Rich, Democratic), sollevando il dubbio che la loro universalità sia più presunta che reale. Le diverse culture possiedono concezioni della felicità profondamente divergenti: l’Occidente la identifica con l’autorealizzazione individuale, l’Asia orientale con l’armonia collettiva, l’America Latina con le relazioni familiari e l’Europa nordica con l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Tale pluralismo concettuale dimostra che ogni tentativo di codificare la felicità in metriche globali rischia di essere riduttivo, se non ideologicamente distorto.
Inoltre, la modernità secolarizzata ha espunto la dimensione spirituale dalla comprensione della felicità, relegandola a un fenomeno meramente psicologico e materiale. Eppure, la Scrittura insegna che la felicità autentica non nasce dalla soddisfazione dei desideri, ma dalla giustizia e dalla comunione con Dio: “Beato l’uomo che trova diletto nella legge del Signore” (Salmo 1).
Anche l’uso della felicità come misura politica solleva interrogativi etici. Il World Happiness Report misura la felicità attraverso indicatori soggettivi, come la soddisfazione della vita su una scala da 0 a 10. Sappiamo, però, che le persone tendono ad adattarsi anche a condizioni di estrema precarietà, dichiarandosi felici pur in situazioni di ingiustizia strutturale. Questo paradosso solleva una questione inquietante: la felicità dichiarata è un segno di resilienza o piuttosto di una rassegnata normalizzazione?
Se la politica si basa su misure di percezione, rischia di legittimare stati di cose inaccettabili, trasformando la felicità in uno strumento di controllo politico. La felicità, infatti, può essere utilizzata come retorica per distogliere l’attenzione dalle disuguaglianze reali: invitare la popolazione a essere felice, senza affrontare le radici della questione, può diventare una forma di gaslighting istituzionale.
Distinguere tra felicità e benessere potrebbe essere dunque utile. Amartya Sen ha da tempo sottolineato che la felicità non è una misura sufficiente per determinare la qualità della vita: un individuo può dichiararsi felice anche in condizioni di estrema povertà, ma ciò non significa che la sua situazione sia moralmente accettabile. Il benessere, invece, richiede condizioni oggettive di dignità, accesso alla sanità, all’istruzione, alla sicurezza. L’orizzonte cristiano amplia ulteriormente questa distinzione: il vero benessere non è il prodotto della felicità soggettiva, ma il risultato di una relazione con Dio che trasforma radicalmente la vita umana, di un allineamento al suo disegno e alla sua volontà.
Il dogma della felicità è una costruzione fragile, ideologicamente connotata e filosoficamente discutibile. Gli sforzi dei singoli e le politiche pubbliche non dovrebbero concentrarsi sulla ricerca di un’emozione soggettiva, ma sul perseguimento della giustizia, della verità e del bene comune. La felicità, se autentica, non è un obiettivo da massimizzare, ma la conseguenza di una vita spiritualmente dinamica e moralmente ordinata. Come afferma Gesù: “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più” (Mt 6,33).