Karl Barth ha capito il cattolicesimo? Forse no

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La lettura del cattolicesimo romano da parte di Karl Barth ha conosciuto un cambiamento, se non proprio una svolta, col Vaticano II. Il Concilio, a cui il teologo svizzero non ha preso parte ma che ha seguito con attenzione durante e dopo la conclusione dei lavori, ha rappresentato per lui una testimonianza di come il cattolicesimo avesse preso una direzione nuova, diversa dalla mera ripetizione dell’assetto ereditato dall’eredità tridentina anti-protestante, dall’Ottocento anti-rivoluzionario e dalle rigidità assolutistiche del Vaticano I. In questo studio: Donald W. Norwood, Reforming Rome. Karl Barth and Vatican II, Grand Rapids, Eerdmans 2015, basato su una tesi di dottorato, l’Autore, teologo inglese della United Reformed Church, prende in esame la comprensione del Vaticano II da parte di Barth, consapevole che la dimensione polemica (del Barth pre-Vaticano II) e quella ecumenica (post-Vaticano II) siano la cifra di Barth in quanto teologo “cattolico” a tutto tondo, cioè avente sempre di mira la chiesa nella sua interezza e globalità. A proposito di Barth, un teologo come Reinhard Hütter parla di “cattolicità dialettica” (80).

Barth fu colpito dalla riscoperta della Parola di Dio da parte del Concilio in termini “dinamici” che per certi aspetti assomigliano a quelli della sua teologia della Parola; fu anche favorevolmente impressionato dall’enfasi cristocentrica del Concilio che può essere paragonata alla sua concentrazione cristologica. Infine, fu favorevolmente toccato dall’afflato unitario che leggeva nei testi conciliari. Sommando tutti questi elementi, Barth fu persuaso che le differenze rimanenti col cattolicesimo romano non fossero più di sostanza teologica tale da mantenere un’opposizione teologicamente frontale al suo sistema imperniato sull’analogia entis, ma dovessero essere ricomprese come particolarità complementari tra diverse anime della chiesa cristiana. Dall’alternativa alla complementarietà ecumenica. 

Dopo il Vaticano II Barth avrebbe spinto per valorizzare sempre più gli elementi “cattolici” del romanesimo e si sarebbe concentrato sui punti in comune, più che su quelli controversi. Non che Barth smise di porre domande e suggerire questioni. Norwood si concentra soprattutto sui temi ecclesiologici sui quali la critica di Barth non si inaridì, così come le letture cattoliche di Barth (Congar, Von Balthasar, ecc.) non smisero mai di pungolarlo e di criticarlo. Di fatto, dopo il Vaticano II l’ecclesiologia rimane per Barth la differenza decisiva, mentre il resto (anche la mariologia che per il primo Barth era la quintessenza dell’errore cattolico!) viene in qualche modo sussunto nella diversità compatibile. Nei termini della diplomazia ecumenica, si tratta di concordare di differire senza la necessità di dividersi (188).

L’Autore ha offerto un ampio e simpatetico studio della lettura di Barth del Concilio Vaticano II. Dagli Anni Sessanta in poi, la lettura compatibilista e complementare sarebbe stata la chiave ermeneutica del movimento ecumenico. Nonostante la statura di gigante, questo è un (altro) limite di Barth: pur avendo richiamato l’attenzione sulla Parola di Dio, la sua teologia della Parola non ha di fatto impedito che l’onda lunga del liberalismo, scettico sulla lettura classica della Bibbia, diventasse l’orizzonte comune del protestantesimo storico. Pur avendo promosso una teologia cristocentrica, il suo pensiero non ha reso un servizio utile alla chiesa nella misura in cui ha di fatto reso la sua cristologia compatibile l’impianto sacramentale, mariano e gerarchico del cattolicesimo, derubricando questo elementi costitutivi del romanesimo da tratti alternativi alla fede evangelica ed elevandoli invece ad aspetti in cui è possibile concordare di differire senza il bisogno di dividersi. Anche nell’evoluzione della sua comprensione del cattolicesimo, Karl Barth mostra tutti i limiti della sua teologia.