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La Giornata della Terra può essere motivata dal naturalismo darwiniano?

“Il suo giorno: buon compleanno, Terra. Il modo migliore per festeggiarla? Curarne le ferite, provando a immaginare che non tutto è perduto. Anche perché, i motivi per crederci e sperare di farlo sono davvero tanti”. Queste sono le prime righe di un articolo recente di Peppe Aquaro sul Corriere della Sera (21 aprile 2021) che tratta della Giornata mondiale della Terra. Sono parole belle, scritte con convinzione e che parlano di un futuro più brillante, più sostenibile e più green. Fra tutte queste belle proposte però mi viene da chiedere: su cosa sono fondati tutti questi “motivi per crederci”? Quale sono le basi dei “tanti” motivi per “sperare di curare le ferite” del nostro pianeta?

Spero che non siano motivo di fraintendimento queste mie domande. Secondo me è bello e giusto custodire e coltivare la terra. È bene esercitare responsabilità per l’ambiente e per la natura intorno a noi. È giusto cercare di capire come possiamo amministrare sempre meglio le risorse limitate che sono a nostra disposizione, non solo per noi stessi, ma anche per le generazioni a venire. Ed è anche bello impiegare l’arte per promuovere iniziative a favore di queste cose come ha fatto Antonio Pronostico con le sue illustrazioni per La Stampa e la Repubblica.

Nonostante tutte queste cose belle e positive però, la nostra visione del mondo moderna secolare ha veramente le basi adeguate su cui affermare l’importanza ed il valore di queste cose? Non è la visione della nostra cultura basata su una comprensione piuttosto naturalistica e darwiniana della natura? E se sì basa effettivamente su questa visione, in che modo può il naturalismo darwiniano fornire la motivazione e il senso di dovere per custodire il nostro pianeta?

Se ho capito bene questa visione, il naturalismo propone che la natura stessa si dirige da sola in base alle permutazioni casuali causate dalla sopravvivenza dei più forti al di sopra delle specie più deboli e meno prestanti nell’ambiente. Quindi c’è da chiedere: segue da questa visione che siamo proprio noi esseri umani che dobbiamo “curare le ferite” del nostro pianeta? Cioè: non dovrebbe la natura semplicemente favorire nuove specie evolute che riescono a reggere un ambiente sempre più inquinato? Insomma, che importa alla natura se l’Homo sapiens si autodistrugge? Se non ci vive lui su questo pianeta, arriverà un’altra specie “più forte” che ci riescirà.

Però così non pensa quasi nessuno! Anzi, in tutto il mondo occidentale si vedono sempre più sforzi di capovolgere il danno recato alla terra: leggi sulle emissioni, controlli sulla produzione del cibo, iniziative per proteggere le nostre foreste. Infatti, Aquaro cita Cristina Petrarchi, la  responsabile dell'Accademia e-learning della Fao, che incarna bene questo atteggiamento riguardo al cibo, quando dice: “Dobbiamo generare responsabili del cambiamento, modellatori del clima e futuri leader autorizzati a rivoluzionare in modo sostenibile il cibo ecosistema, nel pieno rispetto dell'umanità e del nostro pianeta”.

A me viene da chiedere sempre: “Perché dobbiamo modellare il clima? Perché dobbiamo rivoluzionare in modo sostenibile l’ecosistema?” Insomma, esattamente come può motivarci la visione naturalistica a prendere la responsabilità di custodire il pianeta? Chiedo questo perché mi sembra che la visione naturalistica possa fornire una descrizione della natura così com’è, però non può dirci come le cose dovrebbero essere. Insomma essa non può fornirci una motivazione morale per cercare di “curare le ferite del pianeta”.

Detto questo, esiste una visione che può fornire questa motivazione e sarebbe la visione biblica. Secondo questa visione, l'uomo fu incaricato dal suo Creatore di "riempire la terra, di renderla soggetta, di dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra” (Genesi 1,26). Così, in quanto apice del creato e portatore dell'immagine di Dio sulla terra, l'uomo e la donna hanno sia la dignità che la responsabilità di amministrare, di curare, di ordinare e di domare il creato. In anni recenti, questa chiamata ad abitare il mondo con responsabilità ci è stata ricordata da diverse dichiarazioni evangeliche contemporanee (si veda il fascicolo “Etica dell’ambiente”, Studi di teologia – Suppl. N. 16 [2018]).

Secondo questa visione, spesso chiamata "il mandato culturale", l'uomo ha il privilegio di esercitare tutta la creatività a sua disposizione per amministrare le risorse di questo pianeta per proteggerlo, arricchirlo e anche abbellirlo. Altrimenti, per quale altro motivo creiamo parchi bellissimi, "piant(iamo) duemila e ventuno alberi in Italia, in collaborazione con cooperative agricole del territorio", "custod(iamo) uno dei più importanti serbatoi di biodiversità vegetale e animale in Europa", e "riqualifich(iamo) un milione di metri quadri di aree verdi in tutto il Paese?"

Può darsi che, a prescindere delle apparenti perplessità della nostra visione del mondo occidentale, non possiamo fare altro che rispecchiare il Giardiniere che ci ha creati a sua immagine? Oppure riteniamo meglio accontentarci di una visione che ci predica la sostenibilità senza però nessuna base coerente per motivarci a fare così?


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