L’Europa “zona libera”, ma lo sarà per tutti?
Sta facendo giustamente discutere la risoluzione del Parlamento europeo (11 marzo 2021) che, in termini forse pomposi, proclama l’Unione Europea come “zona di libertà LGBTIQ”. È importante che su temi sensibili come questi vi sia un dibattito e che tutte le voci siano ascoltate, sia quelle entusiastiche sia quelle problematizzanti. Quando si parla di libertà e diversità, di pluralismo e di rispetto di tutti, è bene discuterne.
Nella risoluzione approvata, il Parlamento “denuncia tutte le forme di violenza e discriminazione fondate sul sesso o sull'orientamento sessuale delle persone”. Questa denuncia è necessaria a fronte di episodi di violenza verbale e fisica nei confronti di persone LGBTIQ che continuano ad essere perpetrati in Europa, alcuni richiamati dalla risoluzione stessa. Le scelte di vita individuale, qualunque esse siano, possono essere opinabili senza per questo autorizzare chi le critica a valicare il confine del rispetto delle persone coinvolte, men che meno legittimare l’aggressione. La nostra cultura deve ancora spurgarsi di metodi socialmente e fisicamente soppressivi delle diversità.
Ovviamente, nella risoluzione non c’è sono la giusta e necessaria denuncia della violenza nei confronti delle persone LGBTIQ. C’è anche la denuncia della “discriminazione” e, in questa parola, c’è un po’ tutto: è discriminazione avanzare delle riserve sulla dissoluzione dei generi maschile e femminile nell’educazione? È discriminazione sostenere la bontà di considerare la genitorialità legata a una paternità e una maternità e, quindi, avanzare obiezioni allo smantellamento della genitorialità binaria? E’ discriminazione ritenere che un adolescente debba essere preservato dal prendere decisioni affrettate sul cambio della sua identità sessuale?
Dai casi richiamati nella risoluzione del Parlamento europeo, è chiarissima l’intenzione di considerare “discriminazione” tutto ciò che obietta, discute, si oppone ad una cultura che considera il genere un mero costrutto culturale che può essere modificato a piacimento, la famiglia una combinazione multipla, il matrimonio come egualitario a prescindere dal genere dei contraenti, il figlio un diritto per gli individui, la procreazione una possibilità tecnologicamente alla portata di tutti coloro che la desiderano e, per di più, con sussidi statali. Per le comunità di fede che considerano certe scelte un “peccato” (come altri, del resto), sarà discriminazione solo dirlo nelle loro catechesi? Sarà possibile parlare liberamente, educare liberamente, partecipare liberamente al dibattito pubblico con idee diverse dalla correttezza imposta senza dover essere tacciati di “discriminazione”?
Anche in Italia, la traiettoria del ddl Zan sulla omotransfobia (tuttora in discussione) indica che, mentre, da un lato, si cerca giustamente di salvaguardare la libertà delle persone nelle loro scelte di vita, dall’altro si corre il rischio di comprimere col diritto penale la libertà di parola e di dissenso rispetto ad orientamenti culturali soggiacenti all’ideologia gender. E’ in gioco il pluralismo delle idee e la possibilità di una società veramente “aperta”.
Oltre ad approvare risoluzioni come questa che hanno valore simbolico, l’Unione Europea sta già ponendo paletti al finanziamento di progetti ed istituzioni che non si adeguano alla “libertà LGBTIQ”. Chi vorrà ricevere sovvenzioni o riconoscimenti dall’UE dovrà sottoscrivere i principi di questa “libertà” e impegnarsi a farsene promotore. Guardando avanti, saranno soprattutto le chiese e le opere evangeliche che ricevono sussidi pubblici in forma di finanziamento statale (nazionale ed europeo) a dover fare i conti con questa sfida. Anche le chiese che praticano ruoli di “ufficiale civile” nella celebrazione di matrimoni (ad esempio), saranno sempre più sollecitate a conformarsi allo spirito di questa risoluzione.
Saranno soprattutto le chiese “di popolo”, rette da un’ecclesiologia moltitudinista, a dover fare i conti con le pretese dello Stato di dettare le regole per ricevere riconoscimenti e finanziamenti. L’ecclesiologia confessante, cioè la convinzione che la chiesa sia composta dai credenti e che sia indipendente dallo Stato (quindi auto-finanziata e auto-regolata), è una forma di protezione da questa invasione dello Stato nella vita della società e delle comunità di fede. La chiesa del Signore Gesù Cristo, mentre testimonia allo Stato e alla società la verità dell’evangelo, deve salvaguardare la sua indipendenza per non diventare costretta in ideologie di Stato che rischiano di diventare dittature ideologiche.