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Linguaggio antropomorfico? Una risposta dai Padri della chiesa

Il linguaggio antropomorfico della Scrittura è stato da sempre fonte di interrogazione da parte dei lettori e dei predicatori del messaggio cristiano. Gli autori biblici, infatti, spesso parlano di Dio usando un linguaggio che ordinariamente si applica all’uomo: le sue caratteristiche, le emozioni, il corpo. La ricchezza del linguaggio biblico è che, pur essendo perfettamente consapevole che Dio trascende ogni descrizione e narrazione umana, la sua Parola, usando parole umane, Lo rivela. I Padri della chiesa sono stati i primi studiosi a porsi la questione dell’appropriatezza del linguaggio biblico riferito a Dio. La loro primazia non è solo cronologica, ma, considerata la qualità e la profondità della loro riflessione, essa va anche considerata sul piano teologico.

Il volume di Mark Sheridan, Language for God in Patristic Tradition. Wrestling with Biblical Anthopomorphism, Downers Grove, IVP 2015, esplora il contributo dei Padri allo studio del linguaggio biblico su Dio. Partendo da una profonda convinzione che la Scrittura fosse l’ispirata Parola di Dio, la patristica ha dovuto fare i conti con uno sfondo culturale greco-romano in cui gli dèi erano rappresentati con tratti fortemente umani, a tratti in modo umanamente imbarazzante. Come poteva il Dio vivente e vero, tre volte santo e rivelato nella Bibbia, essere descritto come se fosse un uomo qualsiasi, cioè avente proprietà che potevano essere predicate anche all’uomo?

Il volume espone la tesi secondo la quale i Padri, come sagaci e riverenti lettori della Bibbia, non volevano appiattire il linguaggio umano applicato a Dio oppure ricorrere alla categoria omerica del “mito” per rendere ragione delle stranezze umane di Dio. In varie intensità e modalità, ricorrevano ad un’ellissi interpretativa dove, da un lato, c’era la praticabilità di una lettura “allegorica”; l’altro fuoco era un’incipiente teoria dell’analogia.  

Il linguaggio antropomorfico non poteva essere preso in modo univoco come se le proprietà umane di Dio lo facessero scadere ad una creatura umana qualsiasi. Nemmeno dovevano essere prese in senso equivoco, come se fossero trappole linguistiche fuorvianti da decodificare per capirne il “vero” significato. Si doveva, evitando questi due pericoli dell’univocità e dell’equivocità, operare una lettura “spirituale”, un’interpretazione teologica aprendosi ad una comprensione analogica. In un’espressione cara ad Origene, la lettura cristiana della Bibbia doveva essere un’ermeneutica “degna di Dio” (deo dignum). Il linguaggio biblico doveva essere assunto in tutta la sua forza espressiva, ma sempre nel contesto di una teologia adeguata all’eterna e perfetta Persona di Dio, appropriata alla sua santità, sagomata sulla sua unicità divina. In questo modo, il linguaggio antropomorfico, se da un lato rivelava Dio veramente, dall’altro rinviava ad una teologia degna di Dio in quanto Dio. 

Il merito di questa ricerca è di sottolineare quanto i Padri leggessero la Bibbia avendo come cornice ermeneutica avvolgente quale la “dignità” di Dio. Non si trattava di sovrapporre questa griglia alla Scrittura, ma di proseguire ciò che gli autori del NT avevano fatto nel leggere gli antropomorfismi dell’AT. Il libro fa riferimento a molti esempi di come la lettura “degna di Dio” orientasse l’ermeneutica patristica del linguaggio antropomorfico. Molto interessanti sono quelli relativi ai salmi imprecatori. In un’utile appendice, l’A. riassume i presupposti, i criteri e le regole applicate nell’interpretazione biblica dei Padri. Mentre molta esegesi moderna cosiddetta “scientifica” non sa che farsi della dignità di Dio ma pratica l’arroganza umana nel decostruire il messaggio biblico, i Padri ricordano quanto i presupposti teologici siano punti di partenza inevitabili per ogni sforzo ermeneutico. Una lettura biblica degna di questo nome deve avere la dignità di Dio come fuoco ordinatore.    


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