Vocabolario di Losanna (X). Responsabilità sociale

 
 

N.B. Oltre al 50° anniversario dell’Alleanza Evangelica Italiana, nel 2024 ricorre anche quello del Movimento di Losanna. Nel 1974, infatti, si tenne il Congresso mondiale per l’evangelizzazione del mondo da cui scaturì il Patto di Losanna, il più importante documento evangelico del XX secolo. Per celebrare questo evento e in vista del IV Congresso di Losanna che si terrà a Seul (Corea del Sud) dal 22 al 28 settembre 2024, questa serie vuole valorizzare alcune parole chiave, una sorta di vocabolario minimo per apprezzare l’eredità del Movimento di Losanna. Le parole sono: Amore, Collaborazione (partenariato), Cultura, Integrità, Missione, Mondo moderno, Pluralismo, Responsabilità sociale, Tutto/a (l’evangelo, il mondo, la chiesa), Unicità/Universalità (di Cristo), Verità.

Il paragrafo 5 del Patto di Losanna (1974) è una delle sezioni più note dell’intero documento. Si dice che:

Sebbene la riconciliazione tra persone non si identifichi con la riconciliazione con Dio, né l’azione sociale equivalga all’evangelizzazione o la liberazione politica alla salvezza, sosteniamo tuttavia che l’evangelizzazione e la nostra responsabilità socio-politica siano entrambe parte del nostro impegno cristiano.

Per inquadrare questa riflessione riprendo quanto scrissi nell’introduzione a “Contributi ad un’etica evangelica pubblica”, Studi di teologia N. 58 (2017).

Al singolo credente, l’etica cristiana ha molto da dire su come vivere una vita degna dell’evangelo. Alla chiesa, l’etica cristiana ha molto da dire su come rispecchiare pratiche di vita comunitaria che illustrino la fede evangelica. Ma alla società (nel linguaggio biblico: al mondo), l’etica cristiana cosa può dire? Alla politica come può contribuire? All’impresa cosa può suggerire? Alla salvaguardia dell’ambiente quale valore aggiunto può apportare? Ai soggetti diversi che popolano la vita organizzata cosa può indicare? Nello spazio pubblico quale postura deve avere? Di fronte alle questioni di sistema quale messaggio può dare? Davanti a stili di vita diversi, opzioni etiche plurime e visioni del mondo non sovrapponibili, quale orientamento può suggerire? Quali architetture sociali e pratiche di convivenza possono favorire la fioritura della vita pubblica? Questo fascio di questioni, qui sommariamente evocato, riguarda il campo dell’etica pubblica. L’etica pubblica è la responsabilità rispetto a tutto ciò che va oltre il singolo individuo o il soggetto specifico e abbraccia la totalità delle relazioni e degli agenti sociali in un’ottica d’insieme. L’etica pubblica ha a che fare con le regole del gioco sociale, con le pratiche della vita comune e con i soggetti che popolano lo spazio pubblico. Nel mondo plurale e globale, la chiesa evangelica ha un’etica pubblica da promuovere?

Il compito di assimilare, nutrire e praticare un’etica pubblica all’altezza dell’evangelo è tra le sfide più impegnative ed urgenti che l’evangelicalismo ha davanti a sé. Le dimensioni numeriche del movimento (il cui ritmo di crescita globale non conosce flessioni né battute d’arresto) e la sua presenza capillare nel mondo (che ne fanno una vera e propria costellazione “cattolica” di chiese e reti di opere) rendono ancor più evidente la necessità. Al di là di considerazioni statistiche e sociologiche, è la natura stessa della fede cristiana a chiedere che il risvolto pubblico della testimonianza sia considerato come parte integrante della missione di tenere alta la parola della vita (Filippesi 2,16). Inoltre, le migliori pagine della storia della testimonianza evangelica hanno saputo, con limiti e precarietà, rappresentare le istanze evangeliche nel campo pubblico.

L’eredità della tradizione evangelica
Si pensi alla Riforma protestante nell’Europa del Cinquecento con le sue ampie ricadute sull’etica vocazionale, famigliare, economica e sociale. Si pensi alla sensibilità sociale dei Risvegli evangelici (su tutti John Wesley, ma anche personalità come William Wilberforce in Gran Bretagna) o al profilo culturalmente poliedrico del neo-calvinismo olandese (che portò Abraham Kuyper a diventare primo ministro, oltreché a fondare un’università libera e cristiana) o all’impegno umanitario e filantropico del Réveil ginevrino dell’Ottocento. Il fatto che la Scrittura fosse una parola “pubblica” da non poter essere relegata alla mera esistenza personale né delimitata al solo destino eterno del mondo; la consapevolezza di vivere la vita entro una cornice relazionale costituita da responsabilità svariate e diffuse che richiedevano un impegno cristiano segnato da coerenza ed integrità; le rivendicazioni dell’evangelo di essere una buona notizia che dovesse in qualche modo riverberare ovunque e comunque, hanno variamente accompagnato le pagine migliori della storia dell’evangelismo moderno.[1] Certamente, i condizionamenti storici e culturali del tutto o in parte contrari a queste istanze evangeliche si sono talvolta fatti sentire col risultato di aggrovigliare i migliori slanci evangelici o di tarpare le ali all’impatto riformatore dell’azione evangelica. Si pensi, ad esempio, all’irrisolto rapporto tra chiesa e stato che la Riforma ha in gran parte ereditato dall’età costantiniana, o ad una certa selettività atomistica nelle sensibilità sociali tipiche dell’evangelismo britannico o del solidarismo europeo d’impronta risvegliata. Non occorre avere una visione acriticamente edulcorata per apprezzare comunque l’eredità del protestantesimo evangelico per quanto attiene l’impegno sociale nello spazio pubblico. Pur con tutti i limiti e le ambiguità, il punto da fissare è che la sollecitazione verso la sfera pubblica è stata una componente non trascurabile della migliore storia evangelica.

Dall’etica individuale alla responsabilità socio-politica
Vero è che, nell’affacciarsi al Novecento, l’evangelicalismo ha concentrato le proprie energie sulle sfide dell’etica cristiana personale e questa matrice individuale/individualista ha profondamente segnato il profilo della testimonianza contemporanea. I passaggi di questo assottigliamento della prospettiva possono essere rapidamente richiamati.[2] Il Fondamentalismo d’inizio secolo reagì con buone ragioni al Social Gospel (Vangelo sociale) che, in nome di un più vasto programma di rivisitazione liberale del messaggio cristiano, concentrava l’attenzione ai temi sociali derubricando quelli dottrinali tradizionali a scorie di un passato di cui liberarsi. Intravedendo i rischi della trasformazione dell’evangelo in un’ideologia politicizzata, la migliore teologia evangelica, oltre a denunciare con forza la svendita del patrimonio teologico cristiano da parte di questa propaggine del liberalismo, forse per reazione trattò i temi dell’etica in chiave di etica prevalentemente personale,[3] manifestando una evidente negligenza nei confronti della dimensione pubblica della fede cristiana. Forte e chiara sul rigore morale richiesto dalla santificazione personale (nelle sfere della sessualità e della famiglia, soprattutto) la teologia evangelica d’impronta anglosassone ebbe la tendenza a sviluppare una certa miopia sull’etica pubblica non riuscendo ad articolare una visione d’insieme per quanto riguarda la sfera sociale. Una certa cultura individualista (tipica della società nordamericana in particolare) ben si sposava a questa enfasi sull’etica personale, lasciando scoperto il restante campo delle responsabilità morali cristiane e, semmai, delegando in modo passivo alle elaborazioni della cultura religiosa di maggioranza il compito di fronteggiare le istanze dell’etica pubblica.

A questa lacuna teologica, diede ulteriormente stura la forte incidenza nella prima metà del Novecento di un ethos evangelico con una spiccata venatura “spiritualista”. La salvezza “eterna” perse per strada il senso qualitativo del termine biblico che parla di una modalità di vita riconciliata con Dio e fu intesa in modo quasi esclusivamente cronologico, come se al Signore interessasse solo il futuro di giudizio/salvezza, ma non il presente con le sue complessità. La salvezza delle “anime” fu compresa come se riguardasse la realtà invisibile di individui a sé stanti, perdendo di vista il carattere olistico, quindi anche materiale e sociale, della visione biblica della vita umana e della salvezza. Parte integrante di questo ethos prevalente fu una tensione escatologica caratterizzata dalla pulsione a “fuggire” dal mondo e segnata dalla sfiducia disfattista verso gli impegni regolari in attività non strettamente rispondenti ad interessi “spirituali”. Il tutto si tradusse in un’appassionata carica evangelizzatrice rivolti ad individui chiamati a scampare dall’imminente tracollo in vista di una futura e spirituale salvezza. Le sfide dell’etica pubblica uscirono dal campo visivo dell’etica evangelica, tutta concentrata ad alimentare il progresso della santificazione personale in vista di lasciare questo mondo a sé stesso.

In questo clima refrattario a farsi carico delle responsabilità pubbliche della fede ed anche teologicamente impoverito, deve essere apprezzata l’inversione di tendenza che il “Congresso di Losanna per l’evangelizzazione del mondo” (1974) introdusse nel mondo evangelico contemporaneo. Il celebre paragrafo 5 del Patto di Losanna è adamantino e programmatico quando dice: “Affermiamo che l’evangelizzazione e l’attività sociopolitica fanno parte, ambedue, del nostro dovere cristiano”.

Losanna ha avuto l’effetto di uno spartiacque nella storia recente, aiutando il mondo evangelico a riappropriarsi della migliore tradizione evangelica ed ancorandola al tema della missionarietà della chiesa.[4] Guardandosi dal pericolo di scivolare nel “vangelo sociale”, ma anche prendendo di petto i rischi di rimpicciolire la visione evangelica ad una caricatura individualista e spiritualista della stessa, Losanna ha reintrodotto nella grammatica minima della testimonianza evangelica il tema della responsabilità sociale non soltanto del singolo credente, ma anche della chiesa nel suo complesso. Ai fini del recupero della legittimità della responsabilità sociale sono stati importanti sia l’influenza di John Stott che il contributo dei teologi latinoamericani ai lavori di Losanna. Il primo ha avuto il merito di dilatare la missiologia evangelica all’azione e al servizio sociale nel mondo moderno;[5] i secondi hanno spinto per declinarla ispanicamente in termini di “mision integral”,[6] una missione che, almeno nelle intenzioni, abbraccia la totalità della vita e del mondo. L’integrazione è avvenuta tramite il rilancio della teologia biblica del regno di Dio che collega dinamicamente il “già e non ancora” dell’azione di Dio, oltre a distinguere senza separare ciò che Dio fa nella chiesa e ciò che fa nel mondo. Dopo Losanna, il tema della responsabilità sociale ha preso cittadinanza stabile nel linguaggio evangelico, anche se permangono pezzi di mondo evangelico che vivono ancora con le aporie pre-Losanna riguardanti la contrapposizione o la reciproca esclusione tra evangelizzazione e impegno sociale, tra salvezza individuale e cornice cosmica della redenzione, tra mandato culturale e missionario, ecc.

I cantieri aperti dell’etica pubblica evangelica
Losanna è stata un passaggio che ha aperto un percorso di lungo periodo. La preoccupazione nel 1974 fu di rilegittimare la pienezza della vocazione cristiana e di allargare le stenosi evangeliche dell’individualismo e dello spiritualismo. Ma dal ridare cittadinanza all’impegno sociopolitico nel segno della missione integrale ad elaborare piste per l’etica pubblica il passaggio non è stato veloce né scontato. Un conto è riconoscere l’importanza di una responsabilità, altro è imbastirne la progettualità pubblica. Sulla scia di Losanna, ci sono voluti almeno tre decenni per elaborare una iniziale tematizzazione dei campi di lavoro di un’etica pubblica evangelica. Costruendo sulle basi di Losanna, l’Impegno d Città del Capo (2010)[7] sfiora infatti i temi del pluralismo, le nuove tecnologie, la vita pubblica, i conflitti etnici, i poveri e gli oppressi, le disabilità, i malati di AIDS, la creazione che soffre, considerandoli parti integranti della missione cristiana nel mondo. Mette in guardia dall’idolatria della sessualità disordinata, l’idolatria del potere, l’ idolatria del successo dell’avidità, facendo appello agli evangelici di tutto il mondo di profilare la loro testimonianza pubblica nel segno dell’umiltà, dell’integrità e della semplicità.

Se Losanna sdoganò l’impegno sociopolitico degli evangelici, Città del Capo gli ha dato una prima mappatura indicando i campi di lavoro principali e insistendo sull’atteggiamento con cui affrontarli. E’ un passo avanti, ma è ancora una tappa in itinere.[8] Città del Capo ha lavorato più sullo stile di un’etica pubblica evangelica e globale che non sulla visione architettonica dell’impegno pubblico. Dopo Losanna e Città del Capo, gli evangelicali non si sentono per nulla inibiti a parlare di “stile di vita missionale”, di “impegno olistico”, di “mentalità del regno”, ecc. echeggiando quindi una certa libertà nel guardare alla propria responsabilità non in termini strettamente individuali e chiesastici, ma più ampiamente trasversali e sociali. La buona volontà è sicuramente presente. Non si sa ancora bene cosa tutto questo linguaggio significhi in termini di etica pubblica. Dal richiamo ad uno stile integro e semplice all’assimilazione di parametri biblici per pensare e ripensare la società, il passo può essere breve, ma non è scontato. Mancano ancora think tanks che elaborino analisi e piste di lavoro nei vari settori; mancano ancora soggetti in grado di trasformare le buone intenzioni in azioni significative; manca ancora una cultura evangelica dell’etica pubblica che sappia caricarsi delle questioni di ordine sistemico connaturate alla sfera pubblica.

Basti indicare alcuni nodi problematici di questa fase storica. L’apertura all’attività sociopolitica incoraggiata da Losanna ha significato che gli evangelici che si sono affacciati all’impegno pubblico si sono trovati scoperti di fronte all’esigenza di aver un pensiero organico di riferimento e hanno trovato risorse apparentemente vicine e prêt-à-porter nel pensiero sociale cattolico. Da fine Ottocento in poi, il cattolicesimo ha elaborato la propria Dottrina sociale della chiesa che comprende una filosofia sociale (la sussidiarietà), una proposta economica (l’economia sociale di mercato), un’impostazione bioetica (il personalismo ontologico) e una modalità operativa (la solidarietà).[9] Allo scongelamento seguito a Losanna, molti evangelici hanno trovato nel pensiero sociale cattolico un bacino culturale “cristiano” a cui aggrapparsi nel tentativo di capire la complessità dell’azione nel campo pubblico. Nel fai-da-te che è seguito, la visione cattolica ha conquistato importanti crediti agli occhi di molti evangelici nel campo etico e sociale, senza che vi fosse il necessario discernimento. Città del Capo è stato un passaggio importante, ma non ancora decisivo per l’affinamento di un pensiero sociale evangelico compiuto. Per molti evangelici nel mondo, le sfide pubbliche nell’etica sono state affrontate con l’armamentario cattolico della Dottrina sociale della chiesa, più che con parametri evangelici degni di questo nome. Ora, con papa Francesco regnante e attento com’è ai temi della cura del creato (vedi l’enciclica Laudato Si’ del 2015), c’è da aspettarsi che la sensibilità ambientale evangelica si senta tranquillamente rappresentata dalle istanze “verdi” del papa, senza veramente capire la posta in gioco teologica e culturale di questo indebito connubio.

Nello specifico europeo, la mancanza di un’elaborazione evangelica nell’etica pubblica è stata una delle cause che ha portato il continente alla fase di impasse politico-culturale in cui si trova. L’Europa viaggia in una crisi spaventosa d’identità e gli evangelici non hanno saputo dire (quasi) niente se non accodarsi stancamente alla retorica della rivendicazione delle “radici cristiane” del continente (perorata, non a caso, dalla chiesa di Roma in primis), ma senza alcuna proposta per suggerire un’architettura valoriale ed istituzionale ad un’Europa opulenta e stanca, in cerca di sé stessa. Come se il pensiero evangelico non fosse portatore di una cultura del pluralismo istituzionale, del federalismo, della sovranità di sfere, della responsabilità diffusa, ecc. e come se a questi cardini del pensiero evangelico non potessero corrispondere proposte pubbliche spendibili. Ora, sullo scenario europeo, i drammi dei fenomeni migratori e dello sfruttamento sessuale sembrano sollecitare l’attivismo evangelico che si traduce in interventi umanitari settoriali e sporadici, senza per questo stimolare analisi di sistema e proposte pubbliche all’altezza delle questioni. Con l’etica pubblica non si scherza. Non basta parlare di “stile di vita missionale” se non si è interpreti di una visione del mondo organicamente e radicalmente evangelica che sia in grado di farsi carico di uno sguardo d’insieme e di una progettualità concreta. I lavori nel cantiere evangelico sono in corso, ma lenti ed in ritardo rispetto alla velocità e alla complessità delle sfide davanti a noi.

Un discorso a parte meriterebbe la situazione italiana. Da noi la “svolta” di Losanna deve essere ancora pienamente assimilata e la recezione della plausibilità biblica della “missione integrale” è ancora in corso di svolgimento. E’ necessario un lavoro capillare di alfabetizzazione rispetto al punto virtuoso sostenuto nel paragrafo 5 del Patto. Esiste un patrimonio di pensiero sociale evangelico che deve ancora penetrare nella coscienza degli evangelici, rendendoli edotti di una non trascurabile eredità e stimolandoli ad una creativa e fedele testimonianza nel nostro Paese che è culturalmente e spiritualmente incartato. Ogni tanto, si manifesta una certa attrazione verso l’impegno politico diretto o verso una specifica istanza pubblica (da ultimo: il tema del gender) che suscitano sussulti temporanei e, talvolta, scomposti. Spesso si tratta di iniziative che mostrano di non saper collocare le istanze rappresentate nell’alveo del pensiero evangelico e, tendenzialmente portate avanti in modo arruffato, si esauriscono ben presto non incidendo più di tanto. Questi movimenti sussultori indicano, tuttavia, la presenza di fermenti interessanti nel corpo dell’evangelicalismo italiano che vanno accompagnati verso la maturazione teologica, l’elaborazione culturale e l’azione pubblica.

[1] Per una rapida rassegna storica sull’impegno sociale degli evangelici soprattutto in ambito anglo-americano si veda Derek J. Tidball, Who are the Evangelicals?, London, Marshall Pickering 1994, pp. 177-195

[2] Un’utile ricognizione è offerta da David Bebbington, “The Decline and Resurgence of Evangelical Social Concern 1918-1980” in John Wollfe (ed.), Evangelical Faith and Public Zeal, London, SPCK 1995, pp. 175-197.

[3] Si veda a titolo di esempio Carl F.H. Henry, Christian Personal Ethics, Grand Rapids, Eerdmans 1957 e John Murray, Principles of Conduct. Aspects of Biblical Ethics, Grand Rapids, Eerdmans 1957. Si tratta di opere di notevole spessore, ma soggette ad una poco plausibile riduzione di prospettiva.

[4] Utili a questo riguardo sono Giacomo Ciccone, “Losanna (1974) e la ricostruzione della relazione tra evangelizzazione e responsabilità sociale”, Studi di teologia NS XXVI (2014) N. 52, pp. 114-122 e Vincenzo Leone, “La responsabilità della chiesa di fronte all’umanità”, Lux Biblica 18 (1998/2) pp. 75-103.

[5] John Stott, Missione cristiana nel mondo moderno, Roma, GBU 1975. Si veda anche il suo Issues Facing Christians Today, Basingstoke, Marshall, Morgan & Scott 1984, pp. 11ss.

[6] C. René Padilla, Mision integral. Ensayos sobre el Reyno y la iglesia, Grand Rapids-Buenos Aires, Eerdmans-Nueva Creation 1986.

[7] L’Impegno di Città del Capo, Chieti Scalo, GBU 2011, ora anche in Dichiarazioni evangeliche II. Il movimento evangelicale 1997-2017, a cura di P. Bolognesi, Bologna, EDB 2017.

[8] Per un primo orientamento è molto utile Giuseppe Rizza, “Per una teologia evangelica della missione dopo Losanna III”, Studi di teologia NS XXIII (2011) N. 46, pp. 158-180.

[9] Su questo campo vasto e complesso mi permetto di rimandare introduttivamente al mio saggio “La doctrine sociale de l’Église catholique romaine”, Théologie Évangélique 6/1 (2007) pp. 51-66.