“Mio figlio è un casino” (I). Capire il suo cervello non è abbastanza

 
 


Se sei un genitore e sei social ti sarà capitato d’imbatterti in uno dei tanti reel di Stefano Rossi, psicopedagogista italiano ed ex educatore di strada delle periferie lombarde, divenuto famoso per il suo metodo educativo fondato su emozioni ed empatia e nell’ambito scolastico per l’educazione cooperativa. Uno dei suoi ultimi libri ha un titolo che smuove le viscere della maggior parte dei genitori: Mio figlio è un casino. Sopravvivere alle tempeste emotive e crescerlo resiliente, Milano, Urra Feltrinelli 2022. 


Rossi, che ha lavorato a stretto contatto con ragazzi “difficili” con esperienze di vita dure e traumatiche, ha a cuore il bene dei ragazzi a partire dalle loro famiglie, le quali nel libro sfida in modo diretto. Il libro però non è rivolto solo ai genitori, ma anche a educatori e insegnanti con lo scopo di ricostruire l’alleanza tra famiglia e scuola, offrendo loro una grammatica comune per insegnare ai ragazzi a “navigare il mare della vita”. 


La sensibilità evangelica qui è certamente stimolata: famiglia e scuola come parte di una rete di sfere sociali organiche le une alle altre. Ma questo non è l’unico stimolo che riceviamo perché in realtà il libro è ricco di immagini, metafore, evocazioni che hanno molto a che fare con l’immaginario evangelico e la fede biblica. Per questo motivo il libro è una lettura stimolante se si vuole capire quali sono le questioni che una parte della psicopedagogia italiana contemporanea si pone e come vi risponde. Ma soprattutto per considerare qual è la risposta dell’evangelo ad esse per costruire nelle nostre famiglie una pedagogia biblicamente fondata.


In breve, la tesi del libro è questa: il fattore scatenante la lacerazione tra scuola e famiglia è di tipo sociale. Il mondo liquido descritto da Bauman, privo di valori di riferimento, ha svuotato di senso anche il compito educativo. Ciò ha attivato una componente psicologica di sopravvivenza sia nei singoli individui sia nelle comunità, ponendo gli uni contro gli altri, generando uno stato di angoscia continuo al quale genitori e insegnanti hanno reagito cercando una risposta filosofia a cui aggrapparsi. “Idoli”, li chiama l’autore, a cui affidarsi per sopravvivere ed educare, che hanno di fatto alimentato la tempesta emotiva dei ragazzi.  Qui interviene il metodo Rossi per riconnettere famiglia e scuola su un nuovo obiettivo: nella “tempesta” della vita genitori e insegnanti devono comprendere la “mente” e “l’anima” di figli e studenti e diventare un “Porto sicuro” per il loro “veliero”.


Mi limiterò in due articoli ad affrontare il secondo ed ultimo punto della tesi: la componente psicologica e gli idoli.


L’autore rifiuta, come “moralmente inaccettabili” (p.113) le letture comportamentaliste che guardano il bambino solo esteriormente e intervengono su un piano superficiale riducendo l’educazione ad “addestramento canino”. Promuove invece un approccio che si avvicina al “cuore” del bambino guardando oltre i comportamenti esteriori per “riconoscere e gestire le emozioni che li determinano” (p. 12). Solo comprendendo e gestendo le emozioni possono nascere una serie di virtù resilienti necessarie ad affrontare le sfide della vita. È un approccio che definisce “empatico” perché basato sulla relazione, sulla comunicazione e la costruzione di ponti tra l’adulto e il bambino e all’interno del bambino stesso. 

Qual è la profondità dalla quale germogliano emozioni e comportamenti, il “cuore” delle tempeste emotive che si scatenano nella vita? Riprendendo il celebre studio di Goleman sull’“Intelligenza sociale”, Rossi illustra come il nostro cervello sia predisposto alla socialità. Ciò genera nuove connessioni intracerebrali e dà forma alle nostre relazioni: il nostro cervello è educabile, ma è necessario conoscerlo. E qui vengono in aiuto le neuroscienze sociali.  Il cervello sociale è composto da tre dimensioni: il cervello cognitivo è definito “il gioiello più prezioso dell’evoluzione” (p.100) che arriva a maturità attorno ai vent’anni; il cervello emotivo o “anima” in senso psicologico che si occupa di comprendere e gestire le emozioni nostre e altrui; e il cervello di sopravvivenza, la parte più antica del cervello che affonda le sue radici evolutive in un tempo in cui eravamo “prede” su questa terra e non predatori. 


Il funzionamento è in sintesi questo: il vecchio cervello della sopravvivenza ha una memoria emotiva. I fantasmi irrisolti del passato ci legano e ci portano a percepire ogni alterità come una minaccia e a tagliare fuori dai comandi il cervello razionale, quello evoluto, generando reazioni improprie di attacco, paralisi o fuga: una tempesta emotiva che non siamo in grado di governare. Questo è ciò che avviene nella mente dei nostri figli o studenti quando osserviamo un comportamento difficile. Il loro cervello cognitivo ha perso il controllo e l’intervento educativo deve agire in modo tale da ridarglielo. Osservando le basi neuroanatomiche dei processi psicologici e sociali la “pedagogia della profondità” propone di prendersi cura del cuore del bambino.  Attraverso l’ascolto e la comprensione empatica sia dei fantasmi irrisolti che fanno tremare il bambino rendendolo oppositivo o persino aggressivo, sia della saggezza intuitiva del cervello emotivo, l’anima, intesa in senso psicologico come “la dimensione più profonda, delicata e sensibile del nostro sentire” (p.182) lo si accompagna a riprendere il controllo razionale delle proprie emozioni per imparare a gestire le crisi della vita. 


Se Rossi ha saputo riconoscere la fallacia del presupposto comportamentista, che considera l’essere umano nient’altro che un groviglio d’istinti governabili per via di stimoli e rinforzi e il quale genera tanta manualistica pedagogica manipolatoria, ha però mancato a sua volta di comprendere il vero cuore della questione. Pur credendo di andare in profondità, in realtà ha solo scalfito un altro strato superficiale. L’intervento educativo è teso di fatto a intervenire sulla neuroplasticità cerebrale e a scalfire il cervello educabile, seppure per mezzo di una relazione empatica. L’effetto è certamente più duraturo perché non trascura il modo in cui la nostra mente funziona, né l’importanza di una relazione d’amore con chi si educa, ma non è definitivo. La presenza del nostro cervello atavico resta comunque un fardello. 


Ammettendo che la teoria dei tre cervelli (McLean) non sia superata e confidando nell’evoluzione, si auspica che il cervello delle future generazioni sarà più evoluto della precedente per forza di adattamento, sopravvivenza e riproduzione, ma nessuno oggi potrà affrontare le tempeste della vita avendo la pace e la soddisfazione di aver conquistato il pieno controllo di sé.


Il problema dei comportamenti difficili o delle crisi della vita, infatti, è interpretato fondamentalmente come una conseguenza di un processo cerebrale evolutivo ancora incompiuto e fino a che gli studi neuroscientifici saranno in rapido e continuo sviluppo non avremo mai la certezza che il nostro metodo educativo sia davvero adatto. 


(continua)