Oltre lo stato di emergenza (VII). Domande aperte sul lavoro agile

 
 

Il covid ha impattato fortemente il mondo del lavoro. Per alcuni ciò ha significato perdere il lavoro. Per altri ha voluto dire cambiare lavoro. Per quasi tutti ha significato modificare il modo di lavorare. Oltre a fare i conti con i sistemi di protezione (mascherina, distanziamento, ecc.) sul posto di lavoro, l’emergenza ha fatto crescere in modo esplosivo il ricorso al lavoro agile (smart working). Anche se con qualche difficoltà iniziali, questo cambiamento è stato assorbito dalla maggior parte delle aziende. Ora che la pandemia è in recessione, il lavoro agile resterà.  Si pensi che il 90% delle aziende sono intenzionate a mantenere lo smart working come modalità stabile per il presente ed il futuro. Vista l’importanza del fenomeno, il Ministero del lavoro ha istituito un Osservatorio per il lavoro agile per la pubblica amministrazione per monitorare la situazione. Il punto è che se prima della pandemia il lavoro agile era una modo straordinario, dopo la pandemia è diventato una modalità ordinaria. E ciò sollecita questioni di notevole rilevanza economica, sociale e culturale. Si può fare qualche osservazione?

È fuori discussione che, economicamente parlando lo smart working può essere un volano per l’efficientamento dei processi di produzione. Certamente ha “costretto” la pubblica amministrazione ad avviare processi di innovazione tecnologica. Inoltre il lavoro agile ha comportato la riduzione del traffico urbano e degli spostamenti dei lavoratori, avendo quindi anche un impatto ambientale. Ha ridisegnato gli spazi di lavoro riducendo per le aziende gli oneri per l’uso di ambienti, edifici, uffici, ecc. Sul versante dei lavoratori, ha permesso flessibilità nella gestione degli orari e dei carici di lavoro responsabilizzandoli nello svolgimento delle mansioni. Il lavoro agile ha anche accresciuto la cultura digitale diffusa nella popolazione attiva. Insomma, ci sono molti punti positivi a favore dello smart working su cui riflettere.  

Ci sono anche ombre che rimangono e domande aperte che vanno poste. A pagarne un prezzo alto è stata la socialità del lavoro, cioè la dimensione del lavoro fatto di rapporti personali, “vicini”, con colleghi, fornitori ed operatori. La prossimità del lavoro si è digitalizzata, zoomizzata, skypeizzata. Mentre molte cose posso essere fatte da remoto, le relazioni significative hanno bisogno di vicinanza. La prossimità a distanza è vera prossimità?

Inoltre, il lavoro agile ha portato a lavorare di più a parità di salario, a far saltare i confini tra sfera lavorativa, familiare, personale. Se prima della pandemia i rischi di lavorare per tante ore al giorno e fare lunghi tragitti per raggiungere il posto di lavoro comportavano un assorbimento totale delle ore giornaliere a disposizione, il lavoro agile ha avuto la tendenza non a cambiare il carico di stress complessivo, ma a rimodularlo in modo diverso, a volte incrementandolo. Anche questa dimensione “regale” è stata toccata.

Infine, le comunicazioni del lavoro agile sono aumentate in quantità perdendo però nel profilo personale dell’interazione. La “profezia” del lavoro è diventata sempre più mediata dalla distanza invece che dalla relazione vis-à-vis.

L’etica evangelica del lavoro deve presidiare queste dinamiche e prestare attenzione al loro impatto sul mondo del lavoro. Lo smart working ha molti vantaggi, ma non è la soluzione ai problemi e alle distorsioni del lavoro. Così come il lavoro pre-covid in uffici anonimi e in fabbriche impersonali non era l’età dell’oro del lavoro, il lavoro agile non è la risposta redentiva ai guasti. Sicuramente è un’occasione per tutti per guardare ai cambiamenti nel mondo del lavoro non con nostalgia del passato, né con l’illusione del futuro, ma con il realismo della visione biblica del mondo che ci chiama a lavorare imitando il Dio che lavora e abitando la nostra vocazione lavorativa in modo regale, profetico e sacerdotale.