Pandethics. Chi ha diritto alla cure?
A partire dai primi anni 2000 le minacce di pandemia si sono presentate a più riprese (SARS/02, H1N1/09) e “la certezza dell’incertezza” si è fatta più concreta. E’ in questo contesto che dal 2009 si inizia a parlare di pandethics (etica delle pandemie), laddove la pandemia rappresenta la condensazione di alcune delle questioni clou della bioetica: le responsabilità sanitarie individuali verso la collettività, l’allocazione delle risorse, il dovere di curare e la compressione delle libertà.
Il 17 aprile 2020 la Commissione Bioetica delle Chiese Battiste, Metodiste e Valdesi ha approvato il documento “Emergenza Covid-19 e criteri di accesso alle terapie. Una riflessione protestante”. In un contesto protestante il più ampiamente inteso, non è la prima pubblicazione italiana che affronti l’attuale pandemia cogliendone le dimensioni bioetiche, ma forse è quello più esteso. Nel documento si dà conto della straordinarietà dell’emergenza sanitaria in Italia, delle difficoltà incontrata per contenere il contagio e per gestire un sistema sanitario impreparato ad assorbire un’ondata di malati che a metà marzo 2020 supera abbondantemente gli 8000 posti fra terapia intensiva e reparti di malattie infettive. Gli encomiabili sforzi del personale medico sono stati gravati da un Servizio Sanitario progressivamente indebolito da anni di politiche di disinvestimento “bipartisan”, e da risorse erose riallocate primariamente sull’ordinario piuttosto che anche sull’emergenza.
La necessità di riprogettare complessivamente “la nostra organizzazione politica, economica e sociale”, anche in funzione del Servizio Sanitario, è di fatto il tema che si fa sempre più strada nel pensiero comune. Il documento della Commissione Bioetica si sofferma in particolar modo sull’accesso a risorse scarse e ai criteri di giustizia distributiva nel garantire la cura a quanti più soggetti possibili. In particolare difende le Raccomandazioni di Etica Clinica del SIAARTI che invocano una modifica dei criteri di accesso alle cure intensive e sub-intensive, basandosi non più solo sul “first come, first served” (in ordine di arrivo), ma piuttosto sul triage clinico dei pazienti tarato sulla “maggior speranza di vita” e sul miglior risultato a terapie aggressive, in uno scenario da “medicina delle catastrofi” dove ciò che conta è salvare più vite. Il documento del SIAARTI in qualche modo ha destato non poche preoccupazioni e prese di posizione, come testimonia l’appendice di Maurizio Mori al parere in merito rilasciato dal Comitato Nazionale di Bioetica (CNB).
Ora, mentre la necessità di criteri chiari che aiutino a orientare la deliberazione etica degli operatori sanitari è del tutto evidente, non si può semplicemente accogliere l’approccio della “maggior speranza di vita” con pragmatismo e neutralità. Certo, il “first come, first served” rischia di riproporre le stesse disuguaglianze di ceto e reddito che più in generale condizionano l’accesso alle cure, anche in un contesto sanitario sufficientemente universalistico come quello italiano. Ma anche l’approccio della “maggior speranza di vita” non è da meno. Anche qui esso è condizionato dalle disuguaglianze socio-economiche che impattano direttamente su quadri clinici non favorevoli. Non solo, una sua certa impronta utilitaristica rischia concretamente di discriminare d’ufficio tipologie di pazienti svantaggiati come i disabili. E poi, oltre a tutto questo, non ci sarebbe anche da ponderare le responsabilità sociali che una persona si è assunto? A parità di “speranza di vita”, in ragione del carico di responsabilità sulla vita di altri, una madre è da privilegiare rispetto a una persona nubile? Un padre rispetto ad un celibe? Sì, certo, per tempi straordinari ci vogliono misure straordinarie.
Come evangelici dovremmo resistere all'idea che l’emergenza ci liberi da responsabilità precedenti e che richieda decisioni più semplici con meno discernimento. Nell’emergenza si enfatizzano azioni con risultati immediatamente visibili, autorizzando condotte altrimenti considerate inaccettabili. Va quindi criticato l’assunto che le crisi giustifichino l’essere sollevati da responsabilità sfidanti e da priorità etiche precedentemente stabilite. Si apre lo spazio alla progettazione di alternative sostenibili, investendo sempre più nella giustizia procedurale, nella vita e cura individuali, e nella preparazione futura, spronando le istituzioni in questa direzione.