Perchè Dio è “semplice”?
Lo scopo di questo interessante volume di Peter Sanlon, Simply God. Recovering the Classical Trinity, Nottingham, IVP 2014, è di presentare una difesa ragionata della “semplicità” di Dio e della sua “aseità”. Nel linguaggio teologico contemporaneo, tali descrizioni del carattere di Dio appaiono essere segnate da una certa staticità e da un debito eccessivo nei confronti di una onto-teologia impregnata di categorie metafisiche rigide. Più che sull’“essere” di Dio, la teologia contemporanea ha scommesso sul “divenire” di Dio in molteplici e divergenti direzioni. In gioco non è qualche dettaglio d’enfasi dottrinale su Dio, ma il profilo essenziale del Dio rivelato.
L’A., pastore evangelico della Chiesa d’Inghilterra e docente di teologia sistematica al St. John’s College di Nottingham, offre un saggio sulla dottrina classica della semplicità di Dio: il Dio biblico è, come è stato dalla tradizione cristiana classica da Agostino a Tommaso, da Calvino a Jonathan Edwards, da Anselmo a Turrettini, solo per citare i “grandi” della teologia occidentale, perfetto nel suo essere e stabile nei suoi attributi. Con le parole di J. Dolezal, la semplicità di Dio significa che “Dio è identico alla sua esistenza e alla sua essenza e che ogni attributo è ontologicamente identico alla sua esistenza. Non c’è nulla in Dio che non sia Dio” (59). Dio non è un essere dialettico in cui gli attributi oscillano, confliggono o si ricompongono sempre, ma è un essere che è Sé stesso in tutte le dimensioni del suo essere.
Grazie al suo essere “semplice”, Dio non può perdere i suoi attributi e non può cambiare. Lui non è dipendente se non da Sé stesso: di qui la sua “aseità”, il suo essere in Sé pienamente sufficiente a Sé stesso. Contro le critiche di chi pensa che la semplicità di Dio porti ad una monade metafisica, l’A. ben argomenta che, biblicamente parlando, l’autosufficienza di Dio è “relazionale”, nel senso che Dio è un essere trino che, pur essendo semplice, è una comunione di Persone. La sua essenza è programmaticamente aperta ad essere uno spazio di relazioni interdipendenti tra Padre, Figlio e Spirito Santo. La sua semplicità è quindi sommamente personale. Dio si relaziona in Sé e, creando l’universo e provvedendo per esso, si relaziona con la sua creazione. L’A. mostra come la semplicità di Dio emerga dalla Rivelazione biblica e non sia una sovrastruttura filosofica appiccicata a posteriori. Essa è la “grammatica” che permette di confessare la perfezione di Dio e di avvicinarsi a Lui in termini personali.
Molto opportunamente, l’A. richiama il contributo di Cornelius Van Til che ha insistito sulla necessità di accogliere la teologia di Dio sulla base della distinzione tra Creatore e creatura, sulla necessità del linguaggio analogico per parlare di Dio e sulla “soluzione” trinitaria del problema dell’uno e dei molti. Un neo metodologico del libro è la citazione delle fonti patristiche. Invece di citarne l’originale e poi eventualmente la collocazione della Patrologia greca o latina, l’A. cita un’edizione in lingua inglese che non rende agevole il recupero della fonte. Toccante è anche il contesto biografico accennato. Mentre scriveva il libro, Sanlon e sua moglie hanno avuto una bimba che è morta poche ore dopo la nascita. Cosa può dire una dottrina apparentemente astrusa ed astratta come la semplicità di Dio in una simile circostanza tragica? E’ stato di grande consolazione per i genitori sapere di poter affidare la loro vita e quella della loro bimba ad un Dio perfetto. Il volume è quindi dedicato a Anastasia Joy (resurrezione e gioia) vissuta solo poche ore.