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Quando un politico deista (Benjamin Franklin) apprezza un predicatore evangelico (George Whitefield)

"Era meraviglioso vedere il cambiamento che la sua predicazione aveva presto apportato ai modi di fare degli abitanti. Da una situazione di disinteresse o di indifferenza nei confronti della religione, sembrava che tutto il mondo fosse sempre più religioso, tanto che non si poteva camminare per la città di sera senza sentire salmi cantati in diverse famiglie di ogni strada".[1]

Queste sono le parole dell'autobiografia di Benjamin Franklin riguardo alla predicazione di George Whitefield. Franklin è stato un padre fondatore degli Stati Uniti, ambasciatore in diverse nazioni europee, un inventore famoso e un deista convinto. Partecipò come osservatore a un risveglio a Philadelphia, Pennsylvania, dove stava predicando il famoso predicatore evangelico George Whitefield. Whitefield era un anglicano, uno dei fondatori del movimento metodista e un predicatore itinerante capace di attirare folle enormi ad ascoltarlo.[2]

George Whitefield (1714-1770) frequentò Oxford dove si unì all'Holy Club e dove conobbe I fratelli John e Charles Wesley. Nel 1735, Whitefield sperimentò la propria conversione a Cristo. Secondo le sue parole, fu immediatamente "liberato dal fardello che mi opprimeva così pesantemente!".[3] Whitefield fu nominato pastore anglicano ma il suo messaggio non fu accolto con approvazione dalla sua chiesa. Di conseguenza, nel 1739, Whitefield iniziò a predicare in spazi pubblici, all’aperto. Nel 1740 Whitefield arrivò a Newport, nel Rhode Island, dove Dio lo usò per dare il via a un periodo di rinnovamento spirituale nelle colonie americane. Whitefield attirò folle enormi e vide molte persone affermare di aver sperimentato la conversione a Cristo. La folla era così numerosa che una sera dovette stare alla finestra di un palazzo perché non c'era più spazio.

Whitefield, pur essendo anglicano, fu invitato a predicare nella chiesa del congregazionalista Jonathan Edwards. Quando sentì Whitefield predicare, Edwards si commosse profondamente e si ritrovò in lacrime.[4] Sebbene Edwards e Whitefield appartenessero a chiese evangeliche di confessioni diverse, entrambi credevano fermamente nelle dottrine del Calvinismo e cioè nella sovranità di Dio nella creazione, nella provvidenza e nella redenzione. La loro disponibilità a collaborare durò nel tempo e incoraggiò altri a lavorare insieme. Dio usò Whitefield in modo così potente tanto da essere considerato "il predicatore principale del risveglio su entrambe le sponde dell'Atlantico".[5]

La citazione di Franklin dimostra la testimonianza di vite cambiate da Dio attraverso l'opera dello Spirito Santo nella proclamazione dell’evangelo. Mentre in precedenza gli abitanti della Pennsylvania si erano mostrati freddi rispetto alle questioni religiose, ben presto si preoccuparono di Dio e di vivere come persone che avevano sperimentato il perdono divino.[6]  Benjamin Franklin non fu solo un osservatore della predicazione di George Whitefield, ma ne divenne presto un amico personale. La casa editrice di Franklin stampò i numerosi sermoni e i diari di Whitefield, che Franklin considerava un uomo di grande integrità. Franklin scrisse,

...ma [io] sono ancora oggi decisamente dell'opinione che egli [Whitefield] sia stato, in tutta la sua condotta, un uomo perfettamente onesto, e penso che la mia testimonianza a suo favore dovrebbe avere un peso maggiore, dato che non avevamo alcun legame religioso. In effetti, a volte pregava per la mia conversione, ma non ha mai avuto la soddisfazione di credere che le sue preghiere fossero ascoltate. La nostra era una semplice amicizia civile, sincera da entrambe le parti, e durò fino alla sua morte.[7]

Cosa ci insegna oggi questa storia? Ci ricorda che la parola di Dio è davvero viva e attiva (Ebrei 4,12). Quando viene proclamata con coraggio, non solo dentro le mura delle nostre sale di culto, e quando un movimento dello Spirito Santo cattura i cuori delle persone in una città, anche le personalità pubbliche ne prendono atto. Benjamin Franklin non era un credente; si ritiene infatti che abbia vissuto in modo molto libertino. Eppure, Franklin non poteva negare l’impatto dell’evangelo che operava intorno a lui e l'impatto positivo che stava avendo sulla società.

Inoltre, questa storia ci ricorda che siamo chiamati a scendere in piazza come ambasciatori di Cristo (2 Corinzi 5,20). In un'epoca di crescente secolarizzazione e in un contesto di minoranza, la chiesa evangelica troppo spesso si ritira, isolandosi e chiudendosi dalla piazza pubblica e, purtroppo, da coloro che la occupano. Ma non siamo chiamati a fuggire. Siamo chiamati a professare coraggiosamente la verità con amore: cioè, il messaggio di riconciliazione che ci è arrivato, e grazie al quale siamo stati liberati dal fardello che ci opprimeva così pesantemente. Siamo chiamati a vivere secondo l’evangelo apertamente in ogni ambito della nostra vita quotidiana. E mentre lo facciamo, dobbiamo pregare che Dio faccia nascere nei nostri quartieri e nelle nostre città un movimento di libertà e di riforma che non può essere ignorato, neanche dai nostri peggiori critici (1 Pietro 2,12).

Infine, questa vicenda ci incoraggia a collaborare nel regno di Dio. Quando vediamo Dio all'opera attraverso il ministero di altri evangelici nelle nostre città, anche se provengono da espressioni diverse della chiesa evangelica (come era il caso di Edwards e Whitefield), più che pregare per loro dovremmo tendere loro la mano per un incoraggiamento reciproco.


[1]John D. Woodbridge, Church History, Volume Two: From Pre-Reformation to the Present Day, Grand Rapids, Zondervan 2012, p. 413. Si veda B. Franklin, Autobiografia (1792), Milano, Garzanti 1999.

[2] Si veda A. Dallimore, George Whitefield. L’evangelista del grande risveglio del diciottesimo secolo, Caltanissetta, Alfa & Omega 2014.

[3] Citato da Woodbridge, cit., p. 411.

[4] Woodbridge, cit., p. 412.

[5] Sinclair B. Ferguson, Church History 101: The Highlights of Twenty Centuries, Kindle Locations 633-634.

[6] Benjamin Franklin, Autobiografia, cit., p. 90.

[7] Ibidem, p. 92.


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