Salvare l’evangelicalismo. Voci allarmate dagli USA

 
 

“Salvate il soldato Ryan” (1998) fu un film che fece scalpore e diede a Steven Spielberg il secondo Oscar. Oggi, riprendendo quel titolo forte, il soggetto del salvataggio non è più un soldato in pericolo della Seconda guerra mondiale, ma l’evangelicalismo d’inizio millennio. Sul New York Times (4/2/2022) l’editorialista David Brooks ha scritto un interessante articolo che lo rievoca: “The Dissenters Trying to Save Evangelicalism from Itself”, i dissenzienti che cercano di salvare l’evangelicalismo da sé stesso.

Perché deve essere salvato e da chi? Brooks dà voce a letture che circolano ormai da anni sullo stato di salute del movimento evangelicale nord-americano. Contrapposizioni esasperate (dal maschilismo/femminismo ai vaccini e alle mascherine, dal wokismo alle questioni razziali), clima pesante sui social, bruciatura delle figure di collegamento: sembra osservare un campo di guerra pieno di macerie fumanti. L’era Trump ha fatto precipitare una crisi diffusa creando una polarizzazione che segue le faglie della politica USA (repubblicani contro democratici) e le traduce in dispute religiose (conservatori contro liberali). Non è che Trump abbia creato la crisi, ma l’ha resa visibile e semmai esasperata. "La politica partigiana", avverte Brooks, "ha sommerso quello che doveva essere un movimento religioso" e che si è spaccato su linee politico-culturali. Nel mondo evangelicale, si sono creati muri di incomunicabilità che hanno eroso i tessuti connettivi comuni. In più, i numeri dei frequentanti le chiese evangelicali, sino a qualche anno fa stabili se non in aumento, conoscono una flessione che diventa vieppiù preoccupante. Il covid ha amplificato questi trend negativi. Insomma, la salute dell’evangelicalismo è a rischio. Qualcuno lo potrà salvare, si chiede Brooks?

Tra le figure intervistate da Brooks c’è Tim Keller, pastore emerito della chiesa Redeemer di New York e autore molto conosciuto nel mondo evangelico internazionale. Nell’età post-Billy Graham, l’ultimo grande leader evangelico capace di mettere tutti d’accordo (o quasi), Keller apparteneva a quella cerchia di personalità di riferimento trasversale dell’evangelicalismo in grado di rappresentarne (e ad un livello alto) le istanze comuni. La polarizzazione ha interessato anche lui che è entrato nel tritacarne delle polemiche social. Anche Keller, come tutte le “èlites evangeliche” ne è uscito acciaccato. Intervenendo sul podcast “Mere Fidelity”, Keller ha parlato dell’articolo del NYT e della missione di salvare l’evangelicalismo. Data la sua statura spirituale di un certo rilievo, la sua prospettiva è, come sempre, interessante.

Di fronte al problema della polarizzazione, Keller dice che la soluzione non sta nel cercare la “via media” tra opposti. Questa sarebbe un’operazione politica di tipo “centrista”. La strada è di riscoprire che il cristianesimo è una “combinazione di estremi” che non può essere risolta in una posizione conservatrice né progressista, ma che manda in tilt il sistema bipolare. Ad esempio, l’affermazione del matrimonio eterosessuale e monogamico (in genere associata alla cultura conservatrice) va insieme alla cura per lo straniero e per il povero (in genere associata alla cultura progressista). Il punto non sta nello smorzare entrambi, ma nell’assumerli entrambi in modo radicale. Se ci si mette a fare un’operazione col bilancino della mediazione e del compromesso, non se ne esce. La binarizzazione politica non è in grado di rappresentare la diversità cristiana. Il vino cristiano non sta negli otri vecchi della contrapposizione tra conservatori e progressisti: richiede di ripensare a categorie nuove e diverse.

Poi, Keller prende spunto da un libro di Christopher Watkin, Thinking through Creation: Genesis 1 and 2 as Tools of Cultural Critique (2017) in cui si introduce il tema della “diagonalizzazione” in teologia. Per Watkin, una delle grandi false dicotomie nella cultura occidentale di oggi è la separazione tra secolare e spirituale, piazza pubblica e religione privata, scienza e fede. Si presume che queste cose non solo siano diverse, ma necessariamente e irrimediabilmente separate. Laddove gran parte della filosofia contemporanea dice che dobbiamo scegliere da che parte stare tra due idee apparentemente opposte, Watkin argomenta che il pensiero biblico diagonalizza l'uno e i molti, persona e comunità, sapere e fede, funzionalità e bellezza, fatti e valori, ecc. Non si tratta di operare dicotomie, ma di diagonalizzare le differenze, affermandole nelle loro distinzioni e relazioni piuttosto che abolirne una per affermare l’altra.

Infine, Keller ha richiamato la diversità di vocazioni nel popolo cristiano e la necessità di avere vocazioni diverse. Ad esempio, Lutero è stata la voce iconoclasta della Riforma, lo schiacciasassi, il rompighiaccio. Calvino è stato il sintetizzatore, colui che ha approfondito le intuizioni di Lutero cercando l’accordo tra i Riformatori. Non tutta la Riforma è stata Lutero, per quanto sia stato necessario averlo. C’è stato bisogno anche della moderazione e della distensione di un Bucero, di un Vermigli, di un Bullinger. In parole mie, la chiesa ha bisogno di profeti, ma anche di sacerdoti che sappiano unire e di persone che svolgono un ruolo regale. 

Un altro esempio di Keller è tratto dalla storia contemporanea. Nell’Olanda di fine Ottocento/inizio Novecento, Abraham Kuyper è stato il profeta che ha denunciato in modo instancabile e tagliente i rischi del liberalismo teologico a differenza di Herman Bavinck che è stata la voce riflessiva e irenica del neo-calvinismo. La chiesa ha bisogno di entrambi i profili: gli attaccanti e i centrocampisti, le ali e i difensori. Sembra che, dice Keller, la nostra età privilegi le voci estreme che hanno la tendenza a delegittimare le vocazioni più dialoganti e meno apodittiche.  

Riuscirà l’evangelicalismo a salvarsi da sé stesso? La domanda è aperta, non solo negli USA.