E se Cristo fosse stato una donna?

 
 

Ma che domanda è? A porsela è Giorgio Fontana, scrittore e saggista, in un articolo sul Post (30/11/2024). Da ateo, Fontana si chiede come sarebbe cambiata la storia se il Figlio di Dio si fosse incarnato in una donna. 

La sua disamina, più che per la domanda in sé, è interessante perché rende chiari i presupposti e la prospettiva con cui una parte del mondo intellettuale italiano contemporaneo guarda alle questioni religiose/spirituali. 


Fontana scrive da ateo-cattolico, immaginando come suoi interlocutori altri esponenti provenienti dalla stessa tradizione o ancora inseriti in essa. Come spesso accade, sovrappone la tradizione cattolica a quella cristiana in generale. 


Sceglie di partire dal dato scritturale, difficilmente confutabile, del rivoluzionario rapporto del cristianesimo con le donne. Si sofferma sul fatto che Gesù stesso ha aperto un nuovo modo di considerare le donne e sull’importante ruolo che queste hanno nel racconto dei Vangeli nonostante il sostrato culturale in cui sono ambientati.

Nonostante questo, asserisce che il patriarcato “domina ancora ampiamente la loro religione” (dei cristiani).


La sua riflessione passa poi per una rassegna storica. Nella tradizione scritturale e in quella patristica la questione dell’incarnazione di Cristo in un maschio non viene mai sollevata. Nei primi secoli dell’affermazione del cristianesimo, infatti le questioni erano altre e miravano alla difesa della fede e al suo consolidamento.

Durante il Medioevo poi, sono gli scolastici a porsi la questione. Pietro Lombardo, Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino si chiedono nei loro scritti se Dio si fosse potuto incarnare in una donna. I loro presupposti, lungi dal porre questioni femministe o di sensibilità inclusiva, erano quelli del metodo scolastico e cioè di poter indagare, con l’uso della ragione, tutto lo scibile.

Attraverso gli strumenti della filosofia aristotelica, gli scolastici volevano creare un dialogo tra fede e ragione e mostrate la loro compatibilità. Con l’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento, la tradizione scolastica di indagare questioni ritenute di lana caprina fu abbandonata. 


Oggi nel contesto secolarizzato post-cristiano e relativista, Fontana “ripesca” il quesito, perché sostiene che la visione cristiana abbia influenzato la cultura, il lessico e l’imaginario al punto da plasmarli e da riversare questo “patriarcato di fatto” nella società.

Fontana, come la Murgia, confonde anche il piano della rivelazione con quello della rappresentazione, criticando l’iconografia che, rappresentando sempre Dio con una mascolinità stereotipata, ha contribuito  “all’incantesimo teologico” cui ancora è sottoposto il discorso comune”, vale a dire il patriarcato conseguente alla cultura cristiana che ha plasmato le relazioni sociali nelle quali siamo ancora immersi. 


Fontana poi passa ad analizzare il ruolo marginale delle donne nell’organizzazione ecclesiale cattolica e parla di un loro mancato ascolto e coinvolgimento.


Infine, riflette sul fatto che un’incarnazione al femminile avrebbe dato un’immagine più collaborativa e meno verticistica della gerarchia ecclesiastica facendo sempre riferimento al mondo cattolico.  Infine, per lui dovrebbero essere le donne ad avere voce in capitolo per approfondire questa possibilità. 


Quello che emerge è che, nel mondo della post-verità, i fatti hanno un ruolo marginale e non ci si interroga tanto sul perché delle cose, ma su come le cose ci fanno sentire. La sensibilità contemporanea si trova a disagio di fronte all’idea che Gesù sia stato un maschio.

Non è tanto interessata ad indagarne le cause o, peggio, a mettere in discussione i propri presupposti di partenza per comprendere, ma suggerisce che letture diverse avrebbero potuto generare risultati migliori. 


Infine, questo modus operandi porta chiunque ad essere ritenuto non autorizzato ad esporsi su temi che non lo toccano personalmente. Un uomo non può parlare di come sarebbe stata l’incarnazione al femminile in quanto non donna.

Si tratta di un’argomentazione molto in voga nella cosiddetta cultura woke, dove non può parlare di aborto chi non ha l’utero, non può parlare di razzismo chi è bianco e così via…perché quello che conta è solo il sentire dell’io individuale e che, al di là della mia percezione delle cose, non esistono realtà oggettive. 


“E se Cristo fosse stata una donna?”, quindi, che razza di domanda è? Sembrerebbe essere una domanda che rispecchia i nostri tempi e con la quale bisogna imparare a dialogare [1].

Tutto è indagabile e tutto si può mettere in discussione, partendo dal sentire individuale e dalla messa in discussione di tutto quello che urta la nostra sensibilità contemporanea. 


La Bibbia è molto realista sulla possibilità di fare domande anche scomode. I Salmi, l’Ecclesiaste, Giobbe, sono pieni di domande “irriverenti”.

Eppure, a cosa serve chiedere senza ammettere come Giobbe “Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti di eseguire un tuo disegno. Chi è colui che senza intelligenza offusca il tuo disegno? Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco. Ti prego, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!” (Gb 42,2-4).


In realtà, Fontana fa la domanda, ma ha già la sua risposta senza aver ascoltato quello che dice la Scrittura. E’ come un novello Pilato che, dopo aver domandato pomposamente “cos’è verità?” a Gesù, si allontana e non aspetta nemmeno la sua risposta (Giovanni 18,38). 


[1]:  Un tentativo in questa direzione è offerto da Paul Wells, “Il genere di Dio”, Studi di teologia N. 28 (2002).