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Se Greta è una teologa

C’è del vero nell’affermazione che “siamo tutti teologi”. Consapevoli o meno, tutti siamo dentro un discorso su Dio, non solo come soggetti passivi ma anche come partecipanti ad una conversazione collettiva. C’è un senso in cui ogni frase, ogni atto di vita è teologico perché presuppone un riferimento ad un “dio”, un assoluto, che può essere un “idolo” artefatto o un dio delle tradizioni religiose o il Dio della Bibbia. Nella comprensione evangelica, poi, la dottrina del sacerdozio universale dei credenti, cavallo di battaglia della Riforma protestante, insegna che tutti i cristiani devono avere accesso diretto alla Bibbia in una lingua comprensibile, leggerla individualmente e in comunità, partecipare alla sua interpretazione ed applicazione, testimoniare della fede in atti e parole. Tutti siamo teologi.

Detto questo, dà a pensare il recente conferimento della laurea in teologia a Greta Thunberg, la giovane attivista di battaglie ambientaliste, da parte dell’Università di Helsinki. Evidentemente, agli occhi delle autorità accademiche finlandesi, Greta, nell’animare i “Fridays for future” in tutto il mondo e nel diventare l’icona dell’ambientalismo contemporaneo, si è distinta per il contributo alla “teologia”. Interessante. Di primo acchito, se proprio avessero voluto insignirla di un titolo accademico onorario, avrebbero potuto scegliere le scienze della terra, la sociologia, le scienze politiche, ecc. Invece no: dottorato honoris causa in teologia.

Non risulta che Greta, nei suoi discorsi e nei suoi atti, abbia mai mostrato un interesse esplicito per la teologia, in generale, o per il Dio cristiano, in particolare. Pur con beneficio d’inventario, sembra al contrario che la visione del mondo dentro cui Greta sguazza è quella ultramoderna o postmoderna che mischia tratti di misticismo new age applicato alla Terra, elementi di neo-marxismo politico basato sul conflitto sociale e generazionale, tracce di narrazioni apocalittiche e richiami ad interventi totalitari per salvare il mondo. Il suo pare essere un messianismo secolarizzato con al centro il “dio” ambiente. 

Forse è proprio questo il motivo che ha spinto l’Università di Helsinki a conferirle il massimo grado dei titoli accademici in teologia. Pur essendo Greta estranea al discorso teologico classico dell’Occidente (biblico, cristiano, ecclesiastico), lei rappresenta la “religione” dell’ambientalismo che ha un certo seguito oggi. Si può dire che sia una profetessa o sacerdotessa o missionaria di questa religione. Essa ha le sue liturgie collettive (le manifestazioni di piazza), il suo credo, la sua escatologia, lancia “anatemi” verso il capitalismo e pronuncia “benedizioni” verso sistemi di vita che restringono le libertà personali. Questa è la teologia di Greta.

C’era un tempo in cui la teologia era considerata la “regina” delle discipline universitarie. Poi, in epoca illuminista, la sua presenza è diventata sospetta fino ad essere espulsa o, al massimo, tollerata in una posizione decentrata. Ora, non è tanto la sua collocazione universitaria quanto il suo statuto epistemico che è in gioco. Già da decenni, i dipartimenti di teologia nelle università pubbliche di mezzo mondo si sono gradualmente trasformati in facoltà di scienze “religiose” perdendo progressivamente il loro profilo “teologico” proprio. Con Greta che diventa “teologa” riconosciuta dalla comunità accademica, assistiamo ad un altro passaggio interessante: la teologia viene risignificata all’interno di una religione che, del cristianesimo biblico o anche tradizionale, non ha più tracce. E’ una nuova teologia perché un nuovo “dio” viene innalzato. E’ un’altra teologia.

Sì, anche Greta è una teologa perché, in un modo o nell’altro, non ci si può divincolare dalla teologia. Il punto è che la sua teologia esplicita ha preso commiato dal quadro epistemico del cristianesimo per sostituirlo con un altro: quello dell’ambientalismo auto-referenziale. Questa teologia trova sempre più cittadinanza nelle università occidentali.

P.S. Nell’elenco di coloro che, come Greta, hanno ricevuto il dottorato in teologia dall’Università di Helsinki, oltre a figure ecclesiastiche del mondo luterano, rientra anche la sociologa inglese Grace Davie. I suoi studi sulla religione contemporanea basata sul senso sul “belonging” (appartenenza) più che sul “believing” (credenza) e sulla natura “vicaria” della pratica religiosa odierna sono importanti. Ad esempio, Tim Keller fa spesso riferimento a Grace Davie nella sua lettura della religiosità contemporanea. Tuttavia, Davie è una sociologa della religione. Perché non conferirle un dottorato in sociologia? Non è anche questo un segno dell’ibridizzazione della teologia e del suo mutamento genetico?


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