Se non sei vulnerabile, non sei un leader
“Leadership” è una parola scivolosa. In essa si giocano tante partite contemporaneamente. Se pensiamo ai contesti secolari i modelli di leadership sono vari e cambiano a seconda delle esigenze: c’è lo stile democratico, collaborativo, armonizzatore, autoritario e così via. Per Valeria Cantoni Mamiani, filosofa dell’Università Cattolica di Milano, esiste un’altra tipologia di leadership, quella della cura. E’ questo il tema del suo saggio “I leader del futuro? Forti nella vulnerabilità” (Vita e Pensiero Plus, 8/1/2022) in cui si fa riferimento ad un aspetto importante ma trascurato: la vulnerabilità.
Secondo l’Autrice la vulnerabilità caratterizza tutto e tutti. Infatti, “a partire dalla consapevolezza della fragilità e vulnerabilità di ogni individuo e del sistema in cui è calato, è necessario ripensare alla società, al lavoro, alle gerarchie, alle capacità utili e a quelle tossiche, ai comportamenti da assumere e a quelli da abbandonare per traghettarci nel futuro prossimo”. La vulnerabilità segnala che tutto è precario, fragile: persone o cose. E’ necessario sviluppare una leadership che tenga conto di queste dinamiche.
“In altre parole bisogna sviluppare una ‘leadership di cura’, presente, paziente, coinvolgente, in ascolto e capace di basare le proprie decisioni a partire dalla fiducia piuttosto che dal controllo”. In altre parole, la leadership non è l’arte del comando o della prevaricazione, ma della cura che significa stare con gli altri e per gli altri, più che sopra o staccati da tutti. E’ la fiducia “calda” che alimenta la conduzione e non una modalità gerarchica “fredda” e meccanica. Si tratta di uno spostamento di baricentro del come si svolge un ruolo di guida. Il saggio evoca soltanto il tema, ma in modo sufficiente da fornire elementi di riflessione.
Si pensi, ad esempio, al modo in cui la leadership è vissuta mediamente nelle chiese evangeliche. Sarebbe un grande tema per una ricerca su vasta scala. A spanne, l’impressione è che i nostri modelli di leadership siano plasmati su calchi accentratori e dirigisti o su modelli sfuggenti e contrassegnati da scarsa credibilità. La leadership è declinata in termini autoritari o evanescenti.
Ne Il leader servo, Chieti-Roma, GBU 2014, John Stott aiuta a tematizzare la leadership in ottica cristiana. Nel commentare la 1 lettera ai Corinzi, Stott descrive le caratteristiche di una leadership che ha come modello il Signore Gesù. Prima che si parlasse di “leadership di cura”, Gesù dava già degli insegnamenti sulla leadership capace di servire, umiliarsi, costruire, edificare.
A ragione Stott dice che “il nostro modello (cristiano, evangelico) di leadership è spesso plasmato più dalla cultura che da Cristo” (p.115). E’ un’affermazione grave. Vuol dire che i modelli culturali della nostra leadership ecclesiale sono altri rispetti a quelli voluti dal Signore. Paolo fu un esempio di leader cristiano in quanto seguace della guida di Cristo. Per questo Paolo non mirò mai al controllo totale, ma preferì agire facendo prevalere l’autorità di Cristo sulla sua vita e sulla chiesa. In un certo senso, la vulnerabilità era la cifra della leadership di Paolo che quando era debole (nelle sue performance), allora era forte (in Cristo).
Chi sono i leader evangelici e come svolgono il loro ruolo? Pare che la leadership nelle chiese evangeliche sia più impegnata a cristallizzare il ruolo del leader che a far fiorire il sacerdozio di tutti i credenti (donne e uomini). Talvolta si tratta di leadership specchio di vite disfunzionali, non inserite in percorsi di formazione permanente e di confronto continuo all’interno di circoli collegiali (locali o più ampi). Leader che leggono poco, non si fanno domande, fanno fatica a invitare altri a prendere responsabilità, preferendo fare tutto loro per fare meglio e prima (forse).
Il prodotto finale, oltre alla tendenza a non chiede mai aiuto, a vivere in modo isolato e autoreferenziale senza processi di rendicontazione, è quella di non dare la possibilità di crescere e di maturare e quindi di accettare altri vicino a sé.
Se non siamo consapevoli del fatto che siamo “in Cristo”, curati da Lui, accettati da Lui e da Lui autorizzati a servire gli altri e con gli altri, non ci apriremo a forme invitanti e partecipative di leadership. Ci accontenteremo di riflettere forme malate di leadership che, invece di piantare semi e innaffiare, creeranno deserti intorno a noi. Se non vogliamo vivere le nostre responsabilità come un posto di comando, un diritto acquisito, un giocattolo solo per noi, accettiamo la nostra vulnerabilità e dipendiamo da Cristo, insieme agli altri.