“Cancel culture” (I), l’intolleranza della tolleranza?
Si sente un gran parlare della “cancel culture”, la cultura della cancellazione. In sintesi, è il tentativo di cancellare le tracce del passato un tempo considerate esemplari ed eroiche e oggi ritenute imbarazzanti, se non proprio riprovevoli. Dagli USA alla Gran Bretagna, ma anche lambendo altri Paesi europei, si registrano crescenti insofferenze verso conquistatori come Cristoforo Colombo, generali come Robert Edward Lee, uomini politici come Cecil Rhodes e Winston Churchill, scrittrici come Flannery O’Connor, giornalisti come Indro Montanelli. Di questi personaggi un tempo non troppo lontano si celebravano le gesta e le imprese; oggi sono ora visti come razzisti, schiavisti, sessisti, simboli di culture intrise di disprezzo dei “non bianchi” e dei “diversi”, talmente ripugnanti da dover essere “cancellati” dalla memoria collettiva. Le loro statue o i loro monumenti sono rimossi, abbattuti oppure imbrattati. Si moltiplicano iniziative volte a cancellare l’intestazione di strade, edifici, bandiere, stendardi e festività in onore di personalità la cui memoria va rimossa.
Oltre a voler eliminare un certo passato, la “cancel culture” può abbattersi anche contro imprese, pubblicità o singole persone che nella loro comunicazione pubblica contravvengono i canoni della “correttezza” culturale accettata. Attraverso la potente macchina del fango dei social media, una campagna mediatica svergognante (“internet shaming”) può venire scatenata per cancellare i messaggi e gli autori ritenuti inaccettabili perché percepiti come “offensivi”. Si pensi al recente caso dell’autrice di Harry Potter, J.K. Rowling, soggetta ad uno svergognamento mediatico per aver affermato l’esistenza di due sessi: evidentemente uno scandalo per alcuni!
Chi vuole cancellare e perché? La “cancel culture” sembra essere un nuovo tribunale della storia che giudica il passato (remoto e recente) e le sue rappresentazioni con i criteri di ciò che una certa cultura neo-marxista e post-moderna considera “corretto” e in vista della “pulizia” del mondo da ogni residuo di tutto ciò che è contro di o diversa da essa. La “cancel culture” ha un suo canone culturale: la realizzazione di un mondo “nuovo” dove non vi siano discriminazioni basate sulla razza, sul genere, sulla capacità economica, insomma sulle divisioni tradizionali che la cultura sino a qualche tempo ha ritenuto accettabili a torto o a ragione. C’è di più. La versione attuale della “cancel culture” immagina (un verbo caro a John Lennon) un mondo con famiglie scomposte, generi fluidi, sessualità sperimentali, relazioni leggere, percorsi educativi monopolizzati dallo stato e inculcanti l’istruzione “corretta”. Insomma, un mondo destrutturato rispetto ad assetti simbolici, sociali e di potere consolidati.
Di fronte a questi fenomeni, talvolta portati avanti con foga intellettuale e violenza di comportamenti, non mancano le reazioni critiche. Un argomento sovente richiamato è che se si lascia libero sfogo alle pulsioni della “cancel culture”, si rischia non tanto di storicizzare il passato e di criticare aspetti discutibili del presente, quanto di demolire la cultura occidentale e, più ancora, le condizioni di vivibilità in un modo diversificato e plurale come il nostro. Nella sua versione più ideologicamente schierata, la “cancel culture”, infatti, non si accontenterebbe di smantellare il razzismo, il maschilismo, il predominio bianco, ecc. ma vorrebbe eliminare le religioni, il capitalismo, la famiglia, il pluralismo, la democrazia, insomma i cardini dell’Occidente: cardini che hanno sempre bisogno di una revisione critica e di riforme costanti, ma che la “cancel culture” vorrebbe invece buttare giù in blocco per sostituirle con non si sa cosa.
La “cancel culture” è una risposta discutibile ad un’istanza reale. Non esiste una cultura “neutrale”, compresa la nostra, che non sia malata e deviata in profondità. Gli effetti del peccato (ad esempio: il razzismo, lo schiavismo, il maschilismo, in tutte le loro forme palesi o subdole) sono ancora potenti in Occidente e vanno giustamente stigmatizzati. Le ingiustizie erette a sistema e codificate in leggi inique vanno modificate. La cultura occidentale non è il regno di Dio realizzato e quindi non va difesa in modo ideologico e “conservatore”. Ma la soluzione della “cancel culture” è migliore del male che vuole combattere? O non è piuttosto un male che cerca di combattere un male, col risultato di peggiorare ancor più la situazione?
Quello che preoccupa della “cancel culture” è il progetto intollerante di cui è portatrice. Usando il titolo del libro di Don Carson, il suo avvento sarebbe il trionfo dell’intolleranza della nuova tolleranza (Chieti, Edizioni GBU 2016), la tirannia del “politicamente corretto”, l’imposizione di un pensiero unico e violento. Presentandosi in nome della tolleranza, la “cancel culture” non tollera ciò che non si confà alla sua ideologia mascherata di tolleranza, ma che è veramente intollerante.
La tesi del libro di Carson è che si deve distinguere la vecchia tolleranza dalla nuova. La vecchia tolleranza accettava (almeno in via di principio) l’esistenza di visioni diverse in un quadro di laicità, era pronta a discuterle e a contrastarle, ma anche a tollerarle, nel caso in cui fossero “diverse”, anche emotivamente “offensive” per qualcuno. La nuova tolleranza non è interessata alla verità e non è veramente pluralista. Finge di essere pluralista, ma è monista. Finge di essere critica, ma è integrista. In nome del rispetto, tende ad imporre un pensiero unico: il proprio. Vuole sostituire un pensiero dominante con un pensiero unico. Vuole cancellarne uno per imporne un altro.
La cultura cristiana sa cogliere le istanze critiche della “cancel culture” non erigendosi a difensore d’ufficio ed in blocco della cultura occidentale. La nostra cultura ha bisogno di un costante lavoro di riforma secondo l’evangelo e la “cancel culture” è una voce che ci può dire a cosa siamo assuefatti, anche se non dovremmo esserlo. Detto questo, la soluzione proposta (la tirannia del “corretto” e il silenziamento delle voci “scorrette”) non è migliore del male da curare. La “cancel culture” è malata dello stesso male, anche se in forme diverse, che vorrebbe risolvere.
(continua)