Competenze di vita … oltre la scuola
Le ormai famose competenze per la vita, elaborate in ambito europeo già qualche anno fa, stanno approdando in via ufficiale anche in Italia. Con la proposta di legge n.418, oramai al suo giro di boa finale, i deputati Lupi e Colucci chiedono la sperimentazione triennale nelle scuole superiori italiane di primo e secondo grado.
Primi apprendisti saranno gli stessi insegnanti dipendenti delle scuole che volontariamente parteciperanno alla sperimentazione. Formati da enti accreditati, nei due anni successivi e gradualmente, introdurranno le competenze nei programmi scolastici in maniera interdisciplinare, sulla base di linee guida metodologico-didattiche che saranno elaborate dal Ministero. Un monitoraggio costante affidato a una commissione composta da esperti, docenti universitari e dirigenti scolastici misurerà l’efficacia a lungo termine di queste competenze nel processo formativo degli studenti.
Cosa sono queste competenze per la vita?
Secondo l’OMS sono quell’insieme di abilità, atteggiamenti e conoscenze che permettono alla persona di affrontare con consapevolezza e successo le sfide della vita quotidiana e del proprio futuro, sia in relazione a sé stessi (come la gestione delle proprie emozioni e dello stress) sia in rapporto agli altri (come l’empatia o la comunicazione non violenta ed efficace) sia nel rapporto con il mondo (le capacità adattive, risolutive e imprenditoriali). Le life skill sono competenze che superano il sapere delle discipline scolastiche tradizionali e per questo sono chiamate anche competenze non-cognitive.
All’orizzonte ci sono obiettivi politici di lungo termine: affrontare la dispersione scolastica, il disagio sociale delle giovani generazioni, la violenza e il disimpegno civile. La soluzione proposta è un nuovo curriculum educativo e il mezzo principale per raggiungerlo la scuola (non solo quella statale ma anche quella paritaria). Il tema fa sorgere diverse domande.
Perché abbiamo bisogno di life skills?
I programmi like skills per diverso tempo sono stati implementati come strumento di prevenzione e avanzamento in contesti di svantaggio e sottosviluppo. Si pensi ai progetti UNICEF Base Life Skills o al progetto Life Skills for Europe del 2018. La mancanza di competenze basilari di vita erano emergenze rilevate nelle nazioni in via di sviluppo, dove l’istruzione non raggiungeva i livelli essenziali, il numero dei bambini in situazioni di pericolo era più alto o il rispetto dei diritti umani era più a rischio. In queste situazioni specifici programmi erano ideati e promossi grazie al partenariato internazionale e al lavoro delle organizzazioni non governative.
Nei nostri contesti invece era una necessità riconosciuta come propria solo a gruppi svantaggiati, per esempio, a causa di limiti socioeconomici, o a gruppi particolarmente vulnerabili come profughi e senzatetto.
Pare che quell’emergenza oggi riguardi tutti, le nostre nazioni civilizzate e i nostri membri più istruiti. Forse che nella società dell’informazione, della conoscenza e dell’iper-specializzazione abbiamo finito per trascurare le abilità fondamentali alla vita? A ciò si aggiunga il relativismo morale che ha tolto di mezzo la dimensione etica dal dibattito socio-pedagogico.
Molte delle famiglie che incontro quotidianamente si affaticano affinché i propri figli abbiano accesso precoce al maggior numero di esperienze formative, artistiche, scientifiche, tecnologiche, ma spesso mancano di insegnare loro le regole e competenze fondamentali per comunicare con gli altri, per stare in mezzo a gente diversa da loro, rispettare gli altri e le cose, o a gestire la frustrazione del limite. E così abbiamo bisogno che la scuola supplisca, ancora una volta, laddove come famiglie abbiamo fallito.
Qualcuno ha affermato che l’obiettivo è umano e non solo accademico, perché si dà importanza alla crescita integrale dello studente, perché la scuola non forma solo la mente, ma anche la coscienza.
Siamo davvero di fronte ad un cambiamento di approccio educativo nella scuola?
Riconoscere l’importanza dell’etica nella formazione della persona è certamente un fatto degno di nota. L’etica non è solo una postilla relegabile al giudizio del comportamento quello che una volta si chiamava “voto in condotta”. Essa riguarda tutta l’esperienza scolastico-formativa dello studente ed è strettamente connessa ai risultati di apprendimento. Essa, però riguarda anche gli insegnanti, il personale e l’ambiente scolastico nel suo complesso. È molto più dell’implementazione di nuove metodologie e programmi nel curriculum esistente. Che ci sia un bisogno etico nelle nuove generazioni e che le norme da sole non siano sufficienti a cambiare la situazione, è un dato evidente.
Siamo sicuri che più scuola sia la soluzione?
Se osserviamo la storia della scuola in Italia vedremo che questo non è certo il primo tentativo di affrontare questioni etiche per mezzo dell’istruzione scolastica. La presenza stessa dell’insegnamento della religione cattolica nell’orario scolastico aveva e ha ancora valenza morale. E dove la religione non è stata all’altezza si è aggiunta l’educazione civica, che dal ‘58 in poi, quando il ministro Moro la istituì, è stata una presenza altalenante ma costante. La scuola doveva preparare alla vita, non solo a una carriera, trasmettendo coscienza comune di valori spirituali e sociali. Ora arrivano le competenze per la vita.
Forse dovremmo davvero domandarci se abbiamo bisogno di più scuola o secondo una più sobria sovranità di sfere, di descolarizzare alcuni spazi e tempi per lasciare più spazio ad altri, come le famiglie e le comunità di fede di vivere al fianco delle giovani generazioni per aiutarle a coltivare quelle abilità di vita tanto necessarie per il futuro delle nostre società, in contesti ordinari, senza che queste siano oggetto di rilevazione e valutazione finale.
Le competenze di vita si apprendono vivendo e la vita va oltre la scuola.