Dalla “sindrome della papera” al “quiet quitting”. Tre spunti per affrontare lo stress da lavoro

 
 

Il lavoro cambia, i lavoratori cambiano…lo stress rimane! Come affrontarlo? Ne ha parlato  Eva Campi in un articolo su Il Sole 24 Ore dal titolo “Dalla sindrome della papera al quiet quitting: così cambia il mondo...” in cui fa una fotografia delle tendenze attuali nel mondo del lavoro. L’articolo affronta il tema dello stress da lavoro facendo riferimento a due approcci “diametralmente opposti” su come affrontarlo.

Un primo approccio è la “sindrome della papera”: cioè l’immagine di un’anatra che galleggia su un lago, apparentemente in modo placido, che però agita in modo ritmico e consistente le sue zampe palmate sotto la superficie. È un’illustrazione molto pertinente, e riguarda coloro che appaiono “normali” sul luogo di lavoro, ma che in realtà stanno affrontando sfide, stress, pressioni di svariato genere, obiettivi personali e imminenti, sotto la superficie di una calma apparenza. La sindome della papera si verifica quando lo stress viene represso e non esternato. C’è il rischio di andare in burnout. Chi vive questa sindrome sono coloro che, prima di recarsi sul luogo di lavoro, fanno un bel respiro e trattengono il fiato fino alla fine dell’orario. Fuori dal luogo di lavoro, è lì che sono loro stessi. 

Il secondo approccio, considerato “nuovo”, è quello del “quiet quitting”. Le statistiche registrano che sempre più persone cambiano lavoro per svariati motivi: condizioni, motivazioni, stipendi, valori opposti all’azienda, necessità di più tempo libero, e così via (ne parla sempre il Sole 24 Ore qui). Quello che spinge le persone a cambiare lavoro in sostanza è la ricerca di un lavoro qualitativamente più soddisfacente: da qui nasce il “quiet quitting”. No straordinari, no ore in più, lavorare solo il tempo necessario, per un equilibrio tra lavoro e vita privata più sostenibile. I lavoratori dell’“abbandono silenzioso” possono assomigliare a coloro che hanno guardano al lavoro per soddisfare scopi personalmente prioritari che sono fuori dal lavoro. 

Per Campi, il “quiet quitting” è la risposta ad una cultura “workaholic”, cioè dipendente dal lavoro che sta tramontando e che coinvolge o ha coinvolto la generazione dei “baby boomer” cioè quelle persone nate tra gli anni ’40 e gli anni ’60. Si tratta di una nuova tendenza per un’“economia della passione” in cui tutti fanno di più ciò che amano. Il “quiet quitting” coinvolge primariamente la generazione Z cioè i nati tra il 1997 e il 2012 e la generazione X cioè coloro che hanno tra i 25 e i 45 anni. 

Se nel primo caso il lavoro è un idolo, nel secondo caso viene vissuto in modo superficiale e distaccato. Alla “sindrome della papera” la risposta è il “quiet quitting”. Ma è davvero questa la soluzione per affrontare lo stress da lavoro? 

Da una prospettiva cristiana (come ad esempio si trova nel fascicolo  “Buon lavoro”, Studi di teologia – Suppl. N. 18 (2020), il lavoro è parte integrante della vita. Siamo creature fatte a immagine del Dio creatore e lavoratore. Anche se il peccato ha scombussolato questa attività impressa fin dal principio provocando spine e rovi (oggi diremmo ingiustizie, stress, condizioni degradate di lavoro) per l’uomo e la donna c’è una buona notizia da vivere e raccontare e una speranza da praticare nel mondo del lavoro. Il lavoro può essere vissuto in modo rinnovato. In Cristo si può trovare l’elemento equilibratore, sganciando il lavoro da zavorre idolatriche e da fughe deresponsabilizzanti. Come? Ad esempio in tre modi:

1. La professione non definisce compiutamente l’identità di una persona. L’identità e la dignità di ogni persona non coincide con una classificazione che ha come criterio unico lo stipendio o la mansione perché, prima di essere dipendenti, sottoposti, dirigenti, operai, qualunque sia la posizione che viene ricoperta o la mansione svolta, ogni credente ha il privilegio di essere “in Cristo” e nessuno e niente può privare di questa identità. L’essere “in Cristo” dà vera dignità ad ogni lavoratore. Non è il datore di lavoro che dice chi sei, non è la tua carriera che ti qualifica, ma è Cristo che ti dice che Dio Padre ti ama e che lo Spirito abita in te.

2. Il lavoro è sì un’attività che l’uomo e la donna hanno il dovere di praticare, ma non è l’unica. Già in origine c’era sì di lavorare nel giardino, ma le persone dovevano scoprire il mondo e costruire relazioni e progetti vari. Il lavoro da una prospettiva cristiana, pertanto, è parte di un ventaglio di vocazioni da scoprire e praticare responsabilmente per la gloria di Dio. Questo permette di vivere il lavoro in modo armonioso con altre sfere della vita (famigliare, ecclesiale, sociale, ludica, ecc).

3. Il lavoro può essere trasformato. Il lavoro a causa del peccato non è quello buono e giusto delle origini, ma questo non vuol dire che Dio non ne è in controllo. Anche il mondo del lavoro, in cui ogni credente è coinvolto, è bisognoso di essere esposto alla buona notizia. Il mondo del lavoro è un campo di missione in cui ricordare e dimostrare una buona notizia per il lavoro, affinché ci sia un rinnovamento in ogni ambito: in reti di collaborazione, nel ricercare il bene degli altri, ristabilire le condizioni di giustizia per tutti.

Può la prospettiva cristiana calmierare lo stress da lavoro? Può evitare la “sindrome della papera” o il “quit quitting”? Noi lavoratori cristiani esprimiamo una diversa cultura del lavoro che si riappropria delle benedizioni originarie del lavoro, che resiste alle distorsioni del lavoro e che beneficia del rinnovamento che Cristo è venuto a portare anche nel mondo del lavoro?