Definire il cattolicesimo romano (II): una deviazione dal cristianesimo biblico
Alla domanda se sia possibile definire il cattolicesimo, la risposta è positiva. Con le dovute cautele e nella consapevolezza che fior fiore di teologi cattolici e non cattolici si sono cimentati nell’impresa, anche la teologia evangelica può assumersi una tale responsabilità. Nel suggerire una definizione che descrive e valuta il cattolicesimo, si deve essere consapevoli che provarci significa urtare la sensibilità ecumenica attuale che vorrebbe tacere ogni analisi critica pubblica preferendo dedicarsi al “dialogo”, cioè parlarsi senza mai dirsi veramente le cose in faccia, soprattutto quelle negative. Invece, credo che un servizio al dialogo teologico sia dato dalla trasparenza delle convinzioni e dall’onestà della comunicazione. E’ più rispettoso dire la verità nella carità, piuttosto che celarla dietro il paravento del “dialogo” che omette di affrontare le questioni decisive, anche se è doloroso dirle e ascoltarle. Dunque, la definizione proposta è la seguente:
Il cattolicesimo romano è una deviazione dal cristianesimo biblico
consolidatasi nel corso dei secoli
riflessa nell’introiezione dell’istituzione imperiale romana
fondatasi su una teologia antropologicamente ottimista e su un’ecclesiologia abnorme
definitasi intorno al suo sistema sacramentale
animata dal progetto cattolico (universale) di assorbire il mondo intero
risultante in una religione confusa e distorta.
Ora è il momento di esaminare in dettaglio ogni affermazione ivi contenuta, partendo dalla prima: “il cattolicesimo romano è una deviazione dal cristianesimo biblico”.
Questa affermazione spezza una narrazione granitica nell’auto-comprensione del cattolicesimo, e cioè che il cattolicesimo è, per via del meccanismo della successione apostolica, lo sviluppo legittimo, ortodosso e cattolico del cristianesimo apostolico. Altri sono scismatici (ortodossi orientali) o eretici (protestanti) in quanto hanno rotto la linea ininterrotta del cattolicesimo e si sono allontanati dal suo tronco. In realtà, già secondo i Riformatori del XVI secolo, questa lettura deve essere rovesciata. Il cattolicesimo romano non è il cristianesimo biblico nella sua forma apostolica, ma una dipartita da esso in chiave sacramentale, gerarchica e devozionale che poi ha assunto un assetto dogmatico (tragicamente irreformabile) con cui ha preso congedo dall’evangelo. Il cattolicesimo risulta essere una devianza ispessita da un impianto dogmatico non biblico (i dogmi mariani, l’infallibilità papale), intrecciata ad uno Stato politico (il Vaticano) con cui la chiesa non deve confondersi, in vista di un obbiettivo che assomiglia più all’aspirazione di un impero che alla missione della chiesa di Gesù Cristo.
Nel “Trattato della vera chiesa e della necessità di vivere in essa” (pubblicato a Ginevra nel 1573) il riformatore italiano Pietro Martire Vermigli (1499-1562) ha difeso esattamente questa lettura: “noi (i protestanti, ndr) non esserci partiti dalla chiesa, ma più tosto essere andati nella Chiesa” (Biblioteca della Riforma italiana, a cura di E. Comba, Firenze, Claudiana 1883, p. 81). La Riforma protestante è stata una necessità per tornare all’evangelo che il sistema romano aveva corrotto al punto da esserne allontanato. Il cristianesimo biblico, mai assopitosi nella storia pur in presenza di molteplici fenomeni corrottivi, ha conosciuto una stagione di rilancio con la Riforma e i Risvegli evangelici successivi.
In quanto deviazione dal cristianesimo biblico, il cattolicesimo non è neanche una tra le tante “denominazioni” legittime con cui la chiesa nel corso del tempo si è espressa. Dato che il suo sistema dogmatico, la sua struttura istituzionale e il suo universo devozionale si sono dipartiti dalla verità, dalla semplicità e dalla radicalità dell’evangelo, il cattolicesimo non può essere considerato una “denominazione” tra le altre. Mentre la teologia evangelica ha una sua grammatica per accettare le declinazioni battiste, metodiste, luterane, “indipendenti”, ecc. della chiesa, la chiesa cattolica di Roma appartiene ad un’altra categoria. Nessuna “denominazione” ha un papa capo religioso e capo politico, nessuna “denominazione” ha dogmi non biblici e irreformabili, nessuna “denominazione” ha una struttura “imperiale” come quella romana. Per questo, il cattolicesimo romano non è una “denominazione” tra le altre.
Il cattolicesimo può contare su un meccanismo di successione istituzionale che gli ha garantito una continuità monarchica (da un papa all’altro tramite un sistema ben affinato), ma sul piano della adesione all’evangelo di Gesù Cristo e della fedeltà alla Parola di Dio si tratta di una deviazione la cui lontananza si è via via accentuata fino a diventare un sistema auto-referenziale.