Definire il cattolicesimo romano da un punto di vista evangelico? Un tentativo (I)
Definire qualcosa è un’impresa audace. Ci si assume una responsabilità importante soprattutto quando si vuole inquadrare un fenomeno complesso che sfugge ad una semplicistica descrizione. Eppure, “dare il nome”, e per estensione fornire una descrizione appropriata delle cose è parte integrante della vocazione umana che non può essere evasa. Volenti o nolenti, operiamo sempre con delle definizioni esplicite o implicite, accurate o grossolane, verificate o acquisite.
Nella consapevolezza della inevitabilità della questione e delle criticità ad essa connessa, la domanda successiva in questa sede è la seguente: è possibile definire il cattolicesimo romano? E’ possibile mettere a fuoco in una descrizione la visione del mondo propria della chiesa cattolica romana? E’ evidente che l’universo “cattolicesimo romano” è estremamente ricco e che, quindi, le chiavi di lettura storica, dogmatica, istituzionale, spirituale, ecc. devono essere intrecciate per provare a fornire un risposta minimamente adeguata.
Nel corso della storia recente della teologia, sulla possibilità di “definire” il cattolicesimo romano, di riconoscerne i tratti essenziali, di individuarne lo spirito ispiratore, si sono cimentati “pesi massimi” della teologia cattolica come Karl Adam (L’essenza del cattolicesimo, 1924, ed. it. 1962), Romano Guardini (La visione cattolica del mondo, 1953; ed. it. 1994), Henri de Lubac (Cattolicismo, 1938; ed. it. 1948), Hans Urs von Balthasar (Cattolico, 1975; ed. it. 1978), Walter Kasper (Chiesa cattolica, 2012; ed. it. 2012), solo per citarne alcuni. Questo per dire che la questione di stabilire i contorni del fenomeno “cattolicesimo romano” è molto sentita dentro il cattolicesimo stesso e che essa è tutt’altro che campata per aria.
Dunque, la definizione del cattolicesimo non è un ambito di ricerca peregrino. Le menti migliori del cattolicesimo contemporaneo hanno provato a fornirne una. Cosa può dire la teologia evangelica al riguardo? Può partecipare alla discussione sulla natura del cattolicesimo romano? E’ consentito, in tempi contrassegnati dall’ecumenicamente corretto, osare dire qualcosa in merito? Può la teologia evangelica assumersi la responsabilità di inquadrare teologicamente il fenomeno del cattolicesimo romano in una breve definizione che sia descrittiva e anche valutativa? Non sono mancati tentativi ariosi e penetranti come, ad esempio, quelli di Vittorio Subilia, Il problema del cattolicesimo (1962) e La nuova cattolicità del cattolicesimo (1967). Valorizzando la loro lezione (anche se non volendo semplicemente riproporla pari pari), è possibile arrivare ad una formula più sintetica di un libro?
Con molto beneficio di inventario e con grande approssimazione, ma anche con una certa dose di coraggio data la complessità dell’oggetto (e forse un po’ di incoscienza!), suggerisco una definizione provvisoria. Eccola:
Il cattolicesimo romano è una deviazione dal cristianesimo biblico
consolidatasi nel corso dei secoli
riflessa nell’introiezione dell’istituzione imperiale romana
fondatasi su una teologia antropologicamente ottimista e su un’ecclesiologia abnorme
definitasi intorno al suo sistema sacramentale
animata dal progetto cattolico (universale) di assorbire il mondo intero
risultante in una religione confusa e distorta.
Nel corso di brevi articoli successivi, proverò ad approfondire ciascuna frase in modo da proporre una lettura evangelica del cattolicesimo romano distillata in questa definizione.