Definire il cattolicesimo romano (III): una deviazione consolidatasi nel corso del tempo
Consapevoli della complessità del compito, definire il cattolicesimo è tuttavia possibile e anche la teologia evangelica può e deve misurarsi con questa responsabilità. Essa è un servizio al dialogo nel segno della verità e della carità. Se non lo fa, rischia di misurarsi con il cattolicesimo in modo superficiale ed ingenuo, senza una visione d’insieme sulla realtà complessa e unitaria del cattolicesimo. La breve definizione proposta è la seguente:
Il cattolicesimo romano è una deviazione dal cristianesimo biblico
consolidatasi nel corso dei secoli
riflessa nell’introiezione dell’istituzione imperiale romana
fondatasi su una teologia antropologicamente ottimista e su un’ecclesiologia abnorme
definitasi intorno al suo sistema sacramentale
animata dal progetto cattolico (universale) di assorbire il mondo intero
risultante in una religione confusa e distorta.
Dopo aver sostenuto che il cattolicesimo romano è una deviazione dal cristianesimo biblico, è venuto il turno di considerare la precisazione storica secondo cui essa si è “consolidata nel corso dei secoli”. Non esiste una data di nascita del cattolicesimo romano, un momento puntilineare da far coincidere con il suo inizio. Esistono piuttosto fasi e transizioni storiche che sono state particolarmente impattanti sullo sviluppo di quel fenomeno che si è poi caratterizzato come “cattolicesimo romano”.
Sicuramente la “svolta costantiniana” del IV secolo è stato uno dei momenti topici. In questo secolo, culminato con la promulgazione del cristianesimo come religione dell’impero romano da parte di Teodosio I (380 d.C.), la chiesa ha progressivamente assunto una forma istituzionale “romana”, aumentando viepiù le rivendicazioni di potere del centro sulle periferie. Sono stati vescovi romani come Damaso I e Siricio ad assumere per sé il ruolo di “papi” che assomigliava a quello di un imperatore ecclesiastico. Dopo questo passaggio cruciale, i panni imperiali vestiti dalla chiesa romana non sono mai stati più dismessi, anzi sono stati legittimati da una ecclesiologia che li ha considerati parte della natura de iure divino della chiesa. Il congedo dalla forma biblica della chiesa (composta da convertiti a Cristo, praticanti il sacerdozio di tutti i credenti, a conduzione plurale, in reti di chiese collegate ma non all’interno di una struttura gerarchica) è stato graduale, progressivo e, tragicamente, irreversibile per il cattolicesimo romano. Partendo dalle rivendicazioni d’autorità di Damaso e Siricio, passando dall’auto-attribuzione delle “due spade” del governo di Bonifacio VIII per arrivare al dogma dell’infallibilità papale del 1870, la struttura portante dell’auto-comprensione della chiesa romana è stata (ed è tuttora) imperiale.
Un altro momento definitorio della parabola deviante del cattolicesimo è stato il modo in cui il titolo di Maria in quanto “madre di Dio” (theotokos) è stato recepito e sviluppato. Quel pronunciamento di Efeso (431 d.C.) ha dato la stura ad una esplosione della mariologia che è stata per ben due volte elevata al rango di dogma: nel 1854 con il dogma dell’immacolata concezione e nel 1950 con il dogma dell’assunzione corporale di Maria. Da un titolo nelle intenzioni dato per sostenere la piena divinità di Gesù Cristo, il cattolicesimo ne ha fatto un pilastro non biblico della sua mariologia dogmatica e devozionale, con importanti ripercussioni sulla cristologia, sulla pneumatologia, sull’ecclesiologia, insomma a cascata su tutto l’impianto della fede. Anche in questo caso, la devianza è irreversibile e ha reso poroso il cattolicesimo all’assorbimento di elementi pagani.
Un terzo passaggio cruciale è stato il Concilio di Trento (1545-1563) quando la chiesa di Roma ha rigettato ufficialmente le istanze della Riforma protestante, anatemizzando il richiamo al ritorno all’evangelo biblico della salvezza per grazia soltanto per mezzo di Cristo soltanto sulla base dell’insegnamento della Scrittura soltanto. Il cattolicesimo “tridentino” ha ispessito la devianza romana, rendendo il cattolicesimo coriaceo e indisponibile a recedere rispetto alle sollecitazioni della Riforma, anzi consolidando i suoi impegni non biblici in ogni ambito della teologia cristiana, dalla dottrina della salvezza a quella della chiesa, dalla cristologia alla spiritualità.
Infine, la lunga parabola della devianza non può sottacere l’ultimo miglio della storia del cattolicesimo romano, quello successivo al Concilio Vaticano II (1962-1965). Senza rinnegare niente del suo passato, la chiesa romana lo ha “aggiornato” e ulteriormente “sviluppato” in chiave dialogica, assorbente, inglobante, ma non purificante. Tutto il pesante fardello romano del passato è stato riaffermato giustapponendogli un profilo “cattolico”, morbido, ecumenico, aperto ad assorbire tutto e tutti. A molti, il cambiamento introdotto dal Vaticano II è sembrata una vera svolta; in realtà, è stato solo un’ulteriore tappa dell’auto-centratura di un sistema che non vuole riformarsi secondo la Parola di Dio, ma rilanciarsi in una nuova fase storica senza perdere nulla del suo DNA qualificante.