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Disabilità, un tema teologico ed etico su cui le chiese evangeliche sono in ritardo

Questo articolo è tratto dall’introduzione al fascicolo “Disabilità”, Studi di teologia – Supplemento N. 22 (2024) appena uscito.

“Abbattere le barriere architettoniche” era lo slogan degli Anni Ottanta quando il tema della disabilità si affacciò nel dibattito pubblico. L’immediata reazione fu quella di cercare di eliminare gli impedimenti ai movimenti di chi utilizzava carrozzine o altri ausili per spostarsi. Le nostre città non erano state pensate per quei disabili e, nonostante gli sforzi fatti, non sono ancora pienamente fruibili a tutti. 

Poi ci fu il tema della disabilità che s’intrecciò a quello dell’inclusione nella scuola. Si trattava di pensare a percorsi scolastici in cui favorire il contributo e la partecipazione di tutti i bambini e le ragazze, anche di quelli che sembravano avere abilità diverse rispetto alla maggioranza degli studenti. Anche qui, molta strada è stata fatta per integrare una fetta importante di popolazione, anche se rimangono evidenti margini di crescita per arrivare ad assetti degni di una civiltà avanzata.

Poi c’è stato il prolungamento nel mondo del lavoro. Come favorire l’ingresso nella forza lavoro di persone le cui prestazioni funzionali o cognitive sono soggette a particolarità proprie? Anche in questo settore, importanti progressi sono stati fatti per organizzare il mondo del lavoro in modo che potesse allargare il bacino dei lavoratori e beneficiare delle competenze di tutti.

Negli ultimi anni, la riflessione sulla disabilità ha preso anche una direzione antropologica (nel senso filosofico). Lo stesso concetto di disabilità è stato opportunamente analizzato per mostrarne i presupposti tutt’altro che neutrali. Esso è costruito a partire da un paradigma (abilità) ed elaborato per sottrazione (dis-abilità) appiccicando ai suoi portatori un’identità definita in negativo: coloro che non sono abili. Ma chi decide cos’è abilità e perché mettere chi non partecipa a questa definizione nell’insieme dei non-normali, degli a-normali, di persone deficitarie di qualcosa? C’è chi addirittura ha parlato dell’abilismo come di una ideologia discriminatoria da denunciare.

Questo per dire che il tema della disabilità è grosso ed è stabilmente presente, anzi in crescita, nel dibattito pubblico. Sulla spinta di questi cambiamenti, anche le chiese evangeliche hanno preso atto non solo della presenza dei disabili ma che la disabilità in quanto tale doveva essere messa a fuoco sul piano teologico con ricadute nelle pratiche ecclesiali e culturali. Diciamo che, in generale, il mondo delle chiese non è stato ispiratore di questa sensibilità crescente e tanto meno all’avanguardia dei suoi sviluppi, ma si è “svegliato” quando esso è diventato imprescindibile: prima nell’abbattimento delle barriere architettoniche, poi nell’inclusione progressiva nella vita comunitaria. Le chiese scontano un certo ritardo nella riflessione e nell’azione. E’ come se stiano ancora prendendo le misure di fronte alla sua ampiezza e alle responsabilità cristiane conseguenti.

Detto tutto ciò, questo fascicolo vi entra in punta di piedi. La disabilità interpella la fede e la chiesa evangelica che la testimonia. Il messaggio biblico va riletto per scoprire che, in realtà, il paradigma dell’abilismo si è sviluppato dentro un’antropologia infettata dal peccato. La buona notizia è che nessuno di noi è “abile” e che in Gesù Cristo, l’unico pienamente abile che si è disabilitato per noi, tutti siamo un solo corpo in Lui, ciascun membro con i propri doni e specificità, senza divisioni in classi tra i diversamente performanti.

Le sfide per rendere le chiese, le famiglie, le comunità dei luoghi accessibili non solo sul piano spaziale, ma soprattutto culturale, amicale, affettivo e spirituale sono enormi. In questo cammino in divenire, tutti gli evangelici e non solo devono riconoscere un debito di riconoscenza a Joni Eareckson Tada (1949- ). Tutti conoscono la sua storia di donna che, a seguito di un incidente, è diventata tetraplegica. Joni l’ha raccontata in molti libri.[1] Da diversi decenni ormai, Joni sta aiutandoci a vedere l’universo della disabilità in modo cristianamente diverso: la vita è e rimane un dono di Dio per sé e per gli altri, da condividere insieme, anche quando le condizioni sono difficili e non esistono prevedibili prospettive di miglioramento. Inoltre, Joni ha anche attivato iniziative e programmi non solo per l’assistenza, ma anche per la formazione di una cultura evangelica della disabilità.[2] E di questa cultura rinnovata dall’evangelo abbiamo tutti bisogno.[3]


[1] In italiano: Joni. La storia di una ragazza paraplegica (orig. 1976); Marchirolo, EUN 2007; Un passo avanti, Marchirolo, EUN 2000; Quando Dio piange, Caltanissetta, A&O 2007; Accanto a Betesda, Catania, CLC 2016; Intromissione divina, Roma, ADI-Media 2018; Le ferite che mi hanno formata, Roma, ADI-Media 2018; Quando è giusto morire?, Marchirolo, EUN 2020.

[2] Dal 1978 opera infatti l’associazione “Joni and Friends”. In Italia: cfr. https://www.jafitalia.org/ .

[3] Un’utile lettura preliminare è Aa.Vv., “Etica della cura”, Studi di teologia – Suppl. N. 17 (2019).


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