“Fratelli tutti”: il prezzo altissimo dell’universalismo cattolico
E’ stato definito, a ragione, il “manifesto politico” del pontificato di papa Francesco. In effetti, c’è molta politica e molta sociologia nella nuova enciclica “Fratelli tutti”, un lungo, lunghissimo documento che assomiglia ad un libro più che ad una lettera. Francesco vuole perorare la causa della fraternità universale e dell’amicizia sociale. Per farlo parla di frontiere da abbattere, di scarti da evitare, di diritti umani non sufficientemente universali, di globalizzazioni ingiuste, di pandemie gravose, di migranti da accogliere, di società aperte, di solidarietà, di diritti dei popoli, di interscambi, di locale e universale, di popolarismo, di limiti della visione politica liberale, di governance mondiale, di amore politico, di riconoscimento dell’altro, dell’ingiustizia della guerra, dell’abolizione della pena di morte. Sono tutti temi “politici” interessanti che, se non fosse per qualche commento sulla parabola del buon samaritano che inframmezza i capitoli, potrebbero essere stati scritti da un consesso di sociologi e operatori umanitari di qualche organizzazione internazionale, magari dopo aver letto, ad esempio, Edgar Morin e Zygmunt Bauman.
Sono i temi che papa Francesco ha disseminato in tanti discorsi e nella sua altra enciclica “Laudato si’” (2015) sulla cura dell’ambiente. Non a caso, lui stesso è l’autore di gran lunga più citato (circa 180 volte) a testimonianza della tendenza circolare del suo pensiero (bisognoso di auto-citarsi per consolidarsi) e della “novità” rispetto ai temi tradizionali della dottrina sociale della chiesa cattolica romana. La visione proposta da “Fratelli tutti” è di una globalizzazione vista da Roma (lato Oltretevere) da parte di un papa gesuita e sudamericano.
E’ solo all’ottavo capitolo (l’ultimo) dell’enciclica che il papa tratta il tema della fratellanza con le religioni e qui il suo discorso si fa più “teologico”. Questa sezione può essere considerata una interpretazione da parte del papa del “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” che lo stesso Francesco aveva firmato ad Abu Dhabi con il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb nel 2019. In realtà, più che una riflessione organica, questa sezione assomiglia più ad un’accozzaglia di citazioni (meglio: auto-citazioni) che, accavallando piani e giustapponendo questioni, finiscono per confondere più che chiarire. Sembra essere il metodo gesuita in azione ed in vista del “discernimento” successivo: buttare tanta polvere in aria aspettando che decanti dentro un recinto di raccolta; gettare sul tavolo tante carte in modo che ciascuno faccia il proprio gioco; accatastare tante parole in modo che ognuno le combini come crede.
Nonostante la farraginosità del discorso, il suo messaggio di fondo è sufficientemente chiaro: siamo tutti fratelli in quanto figli dello stesso Dio. Questa è la verità teologica di papa Francesco. Il commento migliore su questo aspetto dell’enciclica è venuto dal Giudice Mohamed Mahmoud Abdel Salam, intervenuto alla presentazione ufficiale in Vaticano. Ecco cosa ha detto: “In quanto giovane musulmano studioso della Shari'a (legge) dell’Islam e delle sue scienze, mi trovo – con tanto amore ed entusiasmo – concorde con il Papa, e condivido ogni parola che ha scritto nell’Enciclica. Seguo, con soddisfazione e speranza, tutte le sue proposte avanzate in uno spirito premuroso per la rinascita della fratellanza umana”. Se un musulmano convinto e sincero condivide “ogni parola” del papa, vuol dire che lo scritto è deista, al massimo teista, ma non biblicamente e trinitariamente cristiano.
Quando parla di Dio ne parla in termini tanto generici e generali da poter andare bene alla religione musulmana, induista, ecc. e anche massonica. A ulteriore conferma di ciò, “Fratelli tutti” si conclude con una “Preghiera al Creatore” che potrebbe essere usata tanto in una moschea quanto in un tempio massonico. Avendo tolto la “pietra d’inciampo” di Gesù Cristo, tutti possono rivolgersi ad una non meglio precisata Divinità per sentirsi “fratelli”: fratelli in una Divinità ad immagine e somiglianza dell’umanità, non fratelli e sorelle sulla base dell’opera di Gesù Cristo morto e risorto per i peccatori. “Fratelli tutti” ha geneticamente modificato il senso della fraternità biblicamente intesa trasferendolo alla comune umanità. Così facendo ha perso i confini biblici della parola e li ha sostituiti con contorni e contenuti di tipo pan-religioso. E’ questo un servizio all’evangelo di Gesù Cristo?
Cosa dice “Fratelli tutti”?
Ecco una serie di affermazioni dell’enciclica (tratte dall’ottavo capitolo) con un breve commento.
“Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che «soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi». Perché «la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità» (n. 272).
Per papa Francesco, se non partiamo dal fatto che siamo figli dello stesso Padre, non possiamo nemmeno vivere civilmente tra noi. Ma la seconda citazione (di papa Benedetto XVI) dice una cosa diversa: per Ratzinger, la ragione umana permette di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e permette di stabilire una convivenza civica. Francesco ha scambiato la vita civile con la fraternità. Si può vivere civilmente senza essere fratelli? Per papa Benedetto sì, per papa Francesco no.
“La Chiesa apprezza l’azione di Dio nelle altre religioni, e «nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che […] non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Tuttavia come cristiani non possiamo nascondere che «se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna». “Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso «scaturisce per il pensiero cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione, all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con l’umanità intera come vocazione di tutti»” (n. 277).
Qui si cita il Vaticano II (Nostra Aetate, n. 2) ma viene omessa la seconda parte del paragrafo del testo conciliare dove almeno si fa riferimento a Gesù “via, verità e vita”. Questo riferimento esplicito a Cristo viene sostituito con la suggestione della “musica del Vangelo” che è così blanda da non comportare nessuna critica alle religioni. Poi si dice che “per noi” (i cattolici) la sorgente della dignità umana sta nel Vangelo. E per gli altri? Si deve accettare l’idea che vi siano tante “fonti” legittime, ognuna delle quali è buona e giusta?
“Cercare Dio con cuore sincero, purché non lo offuschiamo con i nostri interessi ideologici o strumentali, ci aiuta a riconoscerci compagni di strada, veramente fratelli” (n. 274)
Cercare Dio con cuore sincero è la condizione per essere veramente fratelli? No, biblicamente parlando, siamo tutti creature di Dio indipendentemente dal fatto che si cerchi Dio o meno. Siamo “veramente” fratelli non se cerchiamo Dio, ma se siamo stati trovati da Dio in Gesù Cristo.
“Possiamo «trovare un buon accordo tra culture e religioni differenti; testimonia che le cose che abbiamo in comune sono così tante e importanti che è possibile individuare una via di convivenza serena, ordinata e pacifica, nell’accoglienza delle differenze e nella gioia di essere fratelli perché figli di un unico Dio» (n. 279).
Qui la retorica molto in voga nel linguaggio ecumenico contemporaneo (“sono maggiori le cose che uniscono di quelle che dividono”) è trasferita al rapporto tra le religioni. Di nuovo, la convivenza è radicata nella fraternità in un unico Dio e non nella possibilità di convivere civilmente in quanto esseri umani.
“l’amore di Dio è lo stesso per ogni persona, di qualunque religione sia. E se è ateo, è lo stesso amore. Quando arriverà l’ultimo giorno e ci sarà sulla terra la luce sufficiente per poter vedere le cose come sono, avremo parecchie sorprese!»” (n. 281)
Auto-citandosi, papa Francesco proclama che l’amore di Dio è lo stesso per tutti, anche per gli atei. L’insinuazione è che anche gli atei saranno salvati: questa è la sorpresa. Ma il vangelo dice così?
“Il culto a Dio, sincero e umile, «porta non alla discriminazione, all’odio e alla violenza, ma al rispetto per la sacralità della vita, al rispetto per la dignità e la libertà degli altri e all’amorevole impegno per il benessere di tutti» (n. 283).
Giusto ma molto parziale e in fondo sviante: il culto a Dio non comprende anche (e in modo decisivo) il comandamento di annunciare a tutti Gesù Cristo, unica via, verità e vita, senza il quale non si ha accesso al Padre e quindi non si è salvati?
L’insostenibile costo teologico dell’enciclica
Molta gente, la stragrande maggioranza delle persone, non leggerà la lunga enciclica di papa Francesco “Fratelli tutti”. Sentirà solo qualche frase o battuta ripetuta qua e là a mo’ di slogan. Quello che però tutti (o quasi) riterranno sta nell’efficace incipit del documento: “Fratelli tutti”, siamo tutti fratelli (e sorelle). E’ un potentissimo messaggio universalista ed inclusivo che comunica l’idea che le linee di demarcazione tra credenti e diversamente tali, atei e agnostici, musulmani e cristiani, evangelici e cattolici, sono tutte così fluide e relative da non intaccare i legami di fraternità che accomunano tutti. Già la Rivoluzione francese aveva lanciato la “fraternità” come laica appartenenza alla cittadinanza umana (insieme alla “libertà” e alla “uguaglianza”), ma ora il papa la declina in senso teologico. Siamo “fratelli” non perché cittadini, ma in quanto figli dello stesso Dio. Siamo tutti figli di Dio, quindi fratelli tra noi.
In “Fratelli tutti” c’è la comprensibile ansia volta a stemperare i conflitti, superare le ingiustizie, fermare le guerre. Questa preoccupazione è commendevole anche se, nelle analisi e nelle proposte, vi sono colorature politiche che possono essere legittimamente discusse. Quello che fa problema è la chiave teologica scelta per superare le divisioni: la dichiarazione di fraternità umana in nome di una figliolanza divina. Il papa usa una categoria teologica (“tutti fratelli in quanto tutti figli di Dio”) per creare le condizioni per un mondo migliore.
Quali sono i risvolti teologici di tale operazione da un punto di vista evangelico? Eccone alcuni. Innanzi tutto, “Fratelli tutti” solleva una questione soteriologica. Se siamo tutti fratelli in quanto tutti figli di Dio, ciò vuol dire che tutti saranno salvati? Tutta l’enciclica è pervasa da un potente afflato universalista che include anche gli atei (n. 281). Le religioni in senso lato sono sempre evocate in senso positivo (nn. 277-279) e non vi è alcun cenno ad una critica biblica alle religioni né alla necessità del ravvedimento e della fede in Gesù Cristo come chiave di ricezione della salvezza. Tutto nell’enciclica dà a pensare che tutti, in quanto fratelli, saranno salvati. Questo capisce chi la legge per intero e chi ne ascolta solo alcuni slogan.
Poi c’è una questione cristologica. Anche se Gesù Cristo viene citato qua e là, le sue rivendicazioni esclusive e le sue affermazioni “offensive” vengono taciute. Francesco sapientemente presenta Gesù Cristo non come la “pietra angolare” su cui tutto l’edificio della vita sta in piedi o crolla, ma come la pietra solo dei cristiani che lo riconoscono. Al di sopra di Gesù Cristo, secondo l’enciclica c’è un “Dio” che è padre di tutti. Si è figli di questo “Dio” anche senza riconoscere Gesù Cristo come Signore e Salvatore. Gesù viene così ridotto al rango di campione dei soli cristiani, mentre gli altri “fratelli” sono comunque figli a prescindere dalla fede in Cristo.
A questo risvolto cristologico è associato un profilo ecclesiologico. Se siamo tutti “fratelli” c’è un senso in cui siamo tutti parte della stessa chiesa che raccoglie i fratelli e le sorelle. I confini tra umanità e chiesa vengono ad assottigliarsi al punto che le due comunità diventano coincidenti. L’umanità è la chiesa e la chiesa è l’umanità. Questo è in linea con la visione sacramentale della chiesa cattolica che, secondo il Vaticano II, si comprende come “segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, n. 1). Secondo l’enciclica, tutto il genere umano rientra nella chiesa senza passare dalla fede in Cristo, ma sulla base della figliolanza divina e della fratellanza umana.
Il costo teologico di “Fratelli tutti” è enorme. Il messaggio che manda è biblicamente devastante. Solo dal titolo del documento papale, l’opinione pubblica dentro e fuori la chiesa cattolica romana vedrà consolidarsi l’idea che Dio in fondo salva tutti, che Gesù Cristo è uno tra i tanti e che la chiesa è inclusiva di tutti in base alla comune e condivisa umanità, e non sulla base del ravvedimento e della fede. Questo non è l’evangelo di Gesù Cristo. Che questo messaggio venga dalla “cattedra di Pietro” è una grave responsabilità che Francesco e la sua chiesa si prendono davanti a Dio.
Dopo “Fratelli tutti” sarà più difficile dire che non siamo tutti fratelli
Dopo “Fratelli tutti”, l’enciclica di papa Francesco sulla fraternità universale, si potrà ancora evangelizzare dicendo che, a causa del peccato, non siamo tutti fratelli senza causare shock e reazioni oltremodo negative? Se siamo già tutti fratelli perché figli dello stesso Dio, quali saranno le implicazioni di lunga durata sulla testimonianza evangelica che vuole essere fedele non alla sensibilità universalista della “correttezza bergogliana”, ma al messaggio biblico dell’evangelo di Gesù Cristo?
Dopo aver brevemente analizzato l’ultima sezione dell’enciclica (quella che presenta la cornice teologica della fratellanza umana basata sulla figliolanza divina di tutti) e dopo averne indicato gli ingentissimi costi teologici, può essere utile soffermarsi sulle proiezioni immaginabili sulla pratica missionaria evangelica e sulle sfide che dovrà affrontare.
Il linguaggio inclusivo del “siamo tutti fratelli” diventerà parte delle “strutture di plausibilità” della sensibilità religiosa del mondo contemporaneo. La religione “corretta”, qualunque essa sia, sarà quella spurgata dal cancro della separazione e al servizio dell’inclusione di tutti. Chi non accetta la retorica del “fratelli tutti” sarà visto come portatore di una cultura religiosa divisiva, violenta, proselitista, settaria. Sarà percepito come affetto da un pregiudizio arrogante e saccente che esclude i diversamente credenti, gli agnostici e gli atei dall’abbraccio della fraternità. Sarà visto come seminatore di divisioni. Sarà accusato di elevare la dottrina ad arma di conflitto. Già papa Francesco ha più volte detto che se uno non è “ecumenico” (inclusivo) è “proselitista” (cattivo). Dopo “Fratelli tutti”, per gli evangelici sarà ancor più difficile annunciare il messaggio secondo cui chi non crede in Cristo Gesù è già giudicato ed è sotto il giusto giudizio di Dio. Sarà ancora più duro dire con mitezza e coraggio che in Gesù Cristo soltanto è la salvezza.
La tragica ironia di questo papa è che, se da un lato, si è presentato come l’araldo del rilancio della “missione” e della “chiesa in uscita” (cfr. “Evangelii Gaudium”, 2013), dall’altro è stato il papa che, con la sua ambiguità gesuitica e ora con il suo universalismo cattolico, ha reso l’autentica missione cristiana più complicata di quello che era (non che prima fosse semplice). Ha usato le parole “missione”, “annuncio”, “chiesa missionaria”, ma le ha svuotate di senso evangelico, espungendole del loro significato biblico e riempendole di contenuti vacui ed innocui. “Fratelli tutti” dimostra che la missione che papa Francesco ha in mente non è la predicazione dell’evangelo in parole ed opere, ma l’estensione a tutti di un messaggio di fraternità universale.
Dopo il concilio di Trento (1545-63) e fino al Vaticano II (1962-1965), il cattolicesimo si è rapportato all’altro da sé (protestanti, altre religioni, movimenti culturali e sociali) forte della sua “romanità” e richiamando tutti a tornare all’ovile. I “fratelli” erano solo i cattolici in comunione col papa romano. Gli altri erano “pagani”, “eretici” e “scismatici”: esclusi dalla grazia sacramentale accessibile solo attraverso il sistema gerarchico della chiesa cattolica romana. Col Vaticano II, è stata la “cattolicità” di Roma a prevalere sulla “romanità”. I protestanti sono diventati “fratelli separati”, le altre religioni sono state viste in modo positivo, le persone in generale sono state avvicinate come “cristiani anonimi”. Ora, secondo l’enciclica di Francesco siamo “tutti fratelli”. La dilatazione della cattolicità si è ulteriormente ampliata. Dall’essere esclusi dalla “romanità” di Roma siamo tutti passati ad essere inclusi dalla “cattolicità” di Roma.
Oltre ad affrontare le sfide della per la missione in questo clima inclusivo ed universalista, gli evangelici capiranno le dinamiche del cattolicesimo romano che, entro la tensione tra i poli della romanità e della cattolicità, si muove per essere “segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, n. 1)? Capiranno che l’ecumenismo cattolico è dentro un disegno ancora più grande che abbraccia tutti e tutto in modo che tutta la cattolicità del mondo sia cum et sub Petro (con e sotto il centro romano)?