Identità evangelica in Europa (II). Le chiese evangeliche saranno multiculturali?
Basta visitare una qualsiasi chiesa evangelica, a qualunque denominazione appartenga e soprattutto nei centri urbani medio-grandi, per osservare che la presenza di quelli che un tempo venivano frettolosamente chiamati “stranieri” non è più occasionale. In tutte le chiese vi sono stabilmente sorelle e fratelli provenienti da Paesi diversi dei continenti latino-americano, africano e asiatico. Il loro numero è in aumento. Per non parlare delle chiese “etniche” che pullulano nelle città e che, in molti casi, sono le comunità evangeliche più numerose e talvolta le più attive.
Il fenomeno riguarda l’Europa intera. Le chiese rumene fuori dalla Romania sono numerose e ramificate. Dopo l’inizio della guerra, in Polonia il numero degli evangelici è raddoppiato per l’arrivo di decine di migliaia di credenti ucraini. Per non parlare della presenza capillare di chiese cinesi, ispaniche, brasiliane e africane di diverse regioni. In Paesi di tradizione coloniale come la Gran Bretagna e la Francia affrontano questo fenomeno da decenni; in altre parti d’Europa (compresa l’Italia) esso è più recente. Il punto è che il volto della chiesa evangelica europea sta cambiando, non solo in termini numerici (in aumento considerevole), ma anche spirituali e culturali.
Come incidono questi cambiamenti sull’identità evangelica? Non è più un argomento “pour parler”, ma sicuramente strategico e decisivo per immaginare il presente ed il futuro della testimonianza evangelica. Questo tema è stato affrontato all’interno della conferenza dell’associazione dei teologi evangelici europei (FEET) che si è tenuta a Praga dal 23 al 27 agosto proprio sul tema “L’identità evangelica in Europa oggi: unità nella diversità”.
A parlarne è stato il past. Israel Oluwole Olofinjana, yoruba-nigeriano di cittadinanza britannica che l’Alleanza evangelica ha nominato coordinatore della commissione “One People”. Questa commissione è stata incaricata di favorire le iniziative volte ad incoraggiare l’accoglienza fraterna, il dialogo teologico e lo sviluppo della riflessione ecclesiale sul tema.
Nella sua ricca relazione, Olofinjana ha ricordato come il tema della lotta alla schiavitù si affacciò in modo prepotente sin dall’assemblea fondativa dell’Alleanza Evangelica nel 1846 a Londra: la schiavitù era stata abolita in Gran Bretagna nel 1807, ma gli strascichi economici e culturali rimanevano. Fu discusso se mettere come condizione per associarsi all’Alleanza non solo il non avere schiavi, ma anche non avere azioni o interessi economici in società che impiegavano schiavi. Questo per dire che, dagli esordi ottocenteschi dell’Alleanza, il tema del contrasto alla discriminazione e a favore dell’integrazione è stato al centro della vicenda evangelica, non sempre in modo limpido e coerente, ma pure sempre presente.
Il tema è anche ecclesiologico. Oggi, secondo Olofinjana, le chiese evangeliche possono essere distinte in “chiese europee”, “chiese di migranti”, “chiese multiculturali” e “chiese interculturali”. I primi due modelli mantengono una certa omogeneità tra i loro membri, i secondi due modelli riflettono un mix che comunque rimane dentro codici della cultura prevalente (la chiesa multiculturale) oppure sperimentando una “contaminazione” (la chiesa interculturale).
La sfida per le chiese evangeliche, per Olofinjana, è proprio quella di promuovere chiese interculturali. Come? Accogliendo la diversità culturale come dono di Dio e creando intenzionalmente spazi e contesti dove culture diverse, nazionalità, etnie, generazioni e classi si integrano creando qualcosa di nuovo che non assomiglia a nessuna delle componenti di partenza ma in cui tutte/i sono felici di identificarsi, allo stesso tempo sperimentando tutti un certo grado di “inconvenienza”. Centrali a questi processi sono l’accoglienza e l’appartenenza estesa a tutti i membri (non dando l’impressione di membership di serie A e di serie B), l’investimento verso il riconoscimento di una leadership interculturale, il dare voce a tutti i soggetti e l’incoraggiamento alla polifonia all’interno della vita della chiesa.
Si tratta di sfide non indifferenti, soprattutto in contesti come l’Italia in cui la distanza tra “chiesa europea” e “chiesa di migranti” è ancora ampia e in cui se vi sono pochi esperimenti di chiesa multiculturale, mancano ancora esempi credibili e virtuosi di chiese interculturali. E’ chiaro che l’identità evangelica in Europa non sarà più definita da concetti come “bianco”, “occidentale”, “tradizionale”, ma deve aprirsi ad apprezzare ancora di più le radici dell’evangelo per portare frutti culturali diversi accogliendo genti da ogni provenienza per proseguire il cammino della testimonianza dell’evangelo insieme. E’ un campo in cui l’ecclesiologia deve lavorare e non poco!
(continua)
Della stessa serie:
“Identità evangelica in Europa (I). Un tema kafkiano?” (2/9/2024)