L’ossessione dello schwa. Linguaggio inclusivo a rischio ideologia
In questi ultimi anni il dibattito sul linguaggio inclusivo anche in Italia si è fatto vivo e intenso. Non sono un esperto della lingua italiana, ne sono solo un utilizzatore. Tuttavia, nella mia posizione di inesperto, facevo fatica a comprendere il dibattito in quanto davo per scontato che la lingua evolvesse in modo spontaneo e storicamente fosse impossibile (o quantomeno estremamente difficile) pianificarne lo sviluppo in qualsivoglia direzione.
Ho avuto modo di affrontare il tema tramite un piccolo e scorrevole libro di Andrea De Benedetti dal titolo Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo (Einaudi, 2022). Il libro potrebbe essere giudicato da alcuni un po’ ruvido, ma fa trasparire in modo chiaro il pensiero e il ragionamento dell’autore. Pur essendo un saggio (seppur di breve lunghezza) è accessibile anche a coloro che della lingua italiana sono, proprio come me, dei meri utilizzatori.
L’autore sostiene che l’idea del linguaggio inclusivo “di per sé è seducente: rimuovere dalla lingua gli ostacoli che limitano la piena espressione del sé, promuovere soluzioni che permettano a tutti i parlanti di sentirsi rappresentati, contrastare tutte le parole e le espressioni connotate come offensive e/o discriminatorie, concedere il diritto all’autodeterminazione linguistica - attiva e passiva - a chiunque senta estranee le etichette che la società gli appiccica addosso” (p. 3). Come credenti evangelici potremmo dire che l’idea sottostante è quella del mondo contemporaneo che ci circonda e, quindi, in contrasto con la postura e l’insegnamento biblico. Ma siamo davvero sicuri che sia così semplice la situazione? L’autore nello svolgimento del libro si concentra non solo sui parlanti, come mostrato nella precedente citazione, ma anche sugli ascoltatori. Facendo un esempio: quando un predicatore delle nostre chiese sale sul pulpito, non dovrebbe forse interrogarsi nell’utilizzare un linguaggio che includa, quando necessario, tutta l’assemblea in ascolto? Predicando la realtà che tutti hanno peccato davanti a Dio, non dovremmo essere il più inclusivi possibile con il linguaggio perché ognuno dei nostri ascoltatori possa sentirsi toccato da queste parole? Il linguaggio, lo si voglia o no, influenza moltissimo anche le nostre chiese e il nostro parlare con le persone che sono al di fuori della chiesa, ma alle quali dobbiamo rendere conto della speranza che è in noi.
Il problema principale del linguaggio inclusivo oggi, secondo alcuni, è che il parlante non deve sentirsi ingabbiato in etichette come “maschio/femmina” perché queste limiterebbero la piena espressione del sé. Ma davvero è solo la società che appiccica addosso le etichette? Ovviamente, come cristiani evangelici, sappiamo dalle Scritture che Dio non solo appiccica le etichette di “maschio” e “femmina” all’essere umano, ma molto più profondamente sia intento nell’atto creatore di formare l’essere umano o “maschio” o “femmina” (Genesi 1,26-28). Anche accantonando in un’ottica non cristiana questo aspetto che proviene dalle Scritture, veramente possiamo dire che “maschio” e “femmina” siano solo etichette sociali? Il patrimonio genetico comprende una coppia di cromosomi che è XX per le femmine e XY per i maschi: davvero possiamo ridurre questa differenza genetica a un’etichetta sociale? Davanti a questo fatto ci si chiede se siano i cristiani contrari alla scienza, come a volte accusati dall’esterno, o se sia il pensiero contemporaneo che si sta dimenticando di alcune delle basi del funzionamento naturale della genetica.
Una soluzione linguistica che toglierebbe queste etichette sarebbe, per alcuni, l’introduzione del genere neutro nella lingua italiana a fianco del maschile e del femminile. L’autore, contrario a questa soluzione imposta a tavolino alla nostra lingua, fa notare che l’italiano per alcune persone è già abbastanza complicato con il maschile e il femminile senza aggiungere anche il neutro. Citando De Benedetti possiamo “prevedere che con l’introduzione di un terzo genere grammaticale [il neutro] (e di un trentunesimo fonema [schwa], non dimentichiamolo) per loro le cose potrebbero ulteriormente complicarsi. Ricordiamo che in Italia gli stranieri ufficialmente residenti (per tacere degli invisibili che annaspano nel limbo dell’illegalità) sono più di cinque milioni, quasi il 9 per cento dell’intera popolazione. Senza voler opporre retorica ad altra retorica e senza volerne fare un discorso puramente aritmetico, non suona quantomeno incoerente una soluzione che per includere una minoranza ne esclude un’altra non meno discriminata, e oltretutto molto più numerosa? A meno, naturalmente, che nell’universo inclusivo alcune minoranze siano da considerare più minoranze di altre, nel qual caso sarebbe inutile continuare a ragionare” (p. 51).
Nel dibattito sul linguaggio inclusivo, alcuni sostengono che sia discriminante chiamare una donna con il titolo di “avvocato”, perché dovrebbe essere chiamata “avvocata”. Provo a questo punto a fare un esempio opposto, cosa che non sempre viene presa in considerazione: una “guida alpina” dovrebbe sentirsi discriminata da questo sostantivo, anche se di sesso maschile? Se questa ha un patrimonio genetico che contiene un cromosoma X e un cromosoma Y e si reputasse convintamente uomo, avrebbe davvero tutti i motivi per essere indignato di fronte a questo affronto della lingua italiana? Le “guide” delle nostre chiese, che in un’ottica biblica di complementarietà, sono uomini, davvero si sentirebbero offese?
Sembra che il dibattito sul linguaggio inclusivo con il suo zelo per l’inclusività stia travalicando il limite della ragionevolezza e la naturale evoluzione linguistica focalizzandosi esclusivamente sul tema del genere sessuale, rendendosi una bandierina di alcuni gruppi che sbandierano inclusività e generando però esclusività del linguaggio. L’inclusività nel linguaggio è qualcosa che il nostro insegnamento cristiano non può ignorare e che va incoraggiato, ma non secondo i canoni della cultura contemporanea: occorre perseverare nell’insegnamento biblico della distinzione degli esseri umani creati da Dio maschi o femmine, ai quali possono essere attribuiti sostantivi maschili o femminili a seconda di quello che la nostra lingua prevede.