Santi nel mondo (I). Si può imparare qualcosa dai Puritani?

 
 

Si è appena conclusa una settimana significativa per gli evangelici. Come ogni anno l’AEI ha incoraggiato a ricordare la Domenica della memoria, in cui ogni chiesa cristiana-evangelica ha dedicato un tempo durante il proprio culto pubblico per rievocare personaggi del passato che sulla scia della Riforma del ‘500. Facendo riferimento agli scritti e le pubblicazioni che hanno segnato la storia, alla realtà della persecuzione che oggi come allora non è mai finita contro i cristiani, fino a considerare l’impegno per un cristianesimo integrale. In modo particolare si è fatto riferimento al grande risultato legislativo che nel 1622 aboliva la tratta degli schiavi in Inghilterra, frutto dell’impegno del ministro puritano Roger Williams (1603-1683). 

Dei puritani si parla spesso e molto volentieri come ad un movimento chiuso e intollerante verso l’esterno, senza però considerare la ricchezza del loro modo di vivere l’evangelo in modo integrale. Nel libro di Leland Ryken Santi nel mondo. Il vero volto dei puritani, Caltanissetta, Alfa&Omega, 2017, pp.362, J.I. Packer ricorda il perché abbiamo bisogno dei puritani facendo riferimento alla “completezza della loro vita” (p.12) in coerenza con il loro credo; “la qualità della loro esperienza spirituale” (p.13) che affermava l’importanza della Scrittura e la comunione con Dio in Cristo; “la passione per l’azione concreta” (p.14) riflesso dell’impegno e dell’ingegno nel cambiare in meglio il mondo intorno a loro; “il loro programma per la stabilità familiare” (p.15) per un’etica matrimoniale e oltre in accordo con l’evangelo; “il loro senso della dignità umana” (p.16) perciò un impegno per le questioni etiche; per il loro “ideale di rinnovamento ecclesiastico” (p.17) per una riforma della chiesa sempre in via di perfezione e maturazione, per vivere una vita seriamente alla gloria di Dio.

L’A. nel suo bellissimo libro, guardando con “lenti grandangolari” (p.21), mostra come i puritani non sono quelli che sembrano e decostruisce tutte quelle strutture di pensiero che appongono a questo movimento un’etichetta di persone che non amavano divertirsi, che avevano un’etica “del super lavoro”, con lo scopo di vita primario quello di guadagnare. Ma vediamo che non è così. 

Partendo dal capitolo 2, l’A. riprende l’etica del lavoro dei puritani e afferma che “per comprendere gli atteggiamenti dei puritani nei confronti del lavoro, è necessario gettare uno sguardo al retroterra al quale essi reagivano” (p.60). Fin dall’antichità era visto come una maledizione fino ad arrivare al medioevo tempi in cui il lavoro era diviso tra due categorie: sacro e profano. Infatti, è proprio con la Riforma che il lavoro riprende dignità che gli spetta, ed essendo precursori di una visione del mondo cristiana propria dalla Riforma del ‘500. Come i riformatori anche i puritani rifiutavano la dicotomia sacro-profano in relazione al lavoro; lo stesso Perkins “dichiarava che si poteva servire Dio in ogni genere di vocazione, quand’anche si trattasse si spazzare la casa o badare alle pecore” (p.63). Nel rafforzare il concetto di un lavoro vissuto senza divisioni ma in modo pieno per glorificare Dio, per i puritani ogni cristiano riceve una vocazione da Dio che deve essere seguita e seguirla significa obbedire a Dio (p.65). Il lavoro era buono e utile per sé e per gli altri infatti per i puritani il lavoro “glorificava Dio e beneficiava la società” (p.70) e il frutto di un lavoro fatto alla gloria di Dio ha certamente una retribuzione spirituale prima ancora che materiale. 

Questo significa che nell’etica del lavoro puritana c’è “un’etica della grazia: tutti i guadagni tangibili derivati dal lavoro non sono che altrettanti doni della grazia di Dio” (p.74), così come anche Calvino sosteneva. In questa cornice il bene materiale in possesso veniva visto come un bene anche per gli altri, e guadagnare denaro non avevo il solo scopo di soddisfare i propri bisogni. Anche se nel disprezzare la pigrizia e l’ozio davano un peso eccessivo al lavoro, non significa che non vivessero un’etica del lavoro biblica. Infatti “ad alimentare la repulsione per la pigrizia e il loro elogio del lavoro c’era la convinzione che quest’ultimo fosse un ordinamento della creazione e una necessità per il benessere umano” (p.77).

C’è qualcosa da imparare? Certamente! Al netto della distanza culturale e delle particolarità storiche, i puritani hanno dato un esempio di vite vissute alla luce dell’evangelo che parla ancora. 

(continua)