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A 450 anni dalla strage della notte di San Bartolomeo. Le questioni ancora aperte da allora

Esattamente 450 anni fa Parigi divenne teatro di uno dei massacri più cruenti della storia della chiesa. La notte tra il 23 e il 24 agosto del 1572 migliaia di ugonotti (protestanti francesi) vennero uccisi dalle truppe cattoliche del re Carlo IX, re di Francia. Cinque giorni prima dell’eccidio, cattolici e protestanti, uno accanto all’altro, avevano solennemente partecipato al matrimonio (architettato dalla madre del re, Caterina de’ Medici) che avrebbe teoricamente messo la parola fine a decenni di guerre di religione. La cattolica Margherita di Valois, sorella del re, e il protestante Enrico di Borbone, re di Navarra, convolarono a nozze con l’intento politico di riconciliare le due fazioni nemiche e ridare pace a un popolo stanco e sofferente. 

Capi militari, aristocratici, donne, anziani e bambini ugonotti lasciarono le loro roccaforti e si presentarono davanti alla Cattedrale di Notre-Dame per assistere all’evento del secolo e festeggiare i tre giorni successivi. Nel frattempo, la battaglia di Lepanto, vinta dalla Lega Santa contro gli Ottomani nel 1571, aveva ridato ai cattolici francesi la convinzione di poter definitivamente sconfiggere la controparte protestante. In un primo momento, tentarono di assassinare pochi giorni dopo il matrimonio Gaspard de Coligny, l’ammiraglio comandante delle truppe ugonotte, ma fallirono. Se il primo tentativo fece flop, generando sentimenti di vendetta da parte dei protestanti, il secondo non mancò il bersaglio: la notte di San Bartolomeo, il 24 agosto, le porte della città vennero chiuse e la fazione cattolica facente capo ai duchi di Guisa uccise nel sonno tutti i capi militari ugonotti. Dopodiché, continuò a spargere sangue nelle settimane successive passando a fil di spada sia i civili convenuti a Parigi sia coloro che erano rimasti nelle regioni limitrofe (si stimano tra le 5.000 e le 30.000 vittime). La Francia si trovò nuovamente sommersa nel sangue e le guerre di religione si protrassero fino al 1598, anno dell’editto di Nantes, il quale proclamò il cattolicesimo religione di Stato e diede la limitata libertà ai protestanti di professare la loro fede. 

La soluzione matrimoniale pensata e adottata per porre fine alla guerra ebbe la velleità di poter sovrapporre, riprendendo il principio del “cuius regio, eius religio” (di chi è il regno, di lui è la religione), il potere politico e la fede religiosa rendendoli un tutt’uno, anziché, come direbbe Kuyper, collocarli secondo l’insegnamento biblico in due sfere di sovranità distinte ma altresì comunicanti. Lo Stato è chiamato da Dio a mantenere l’ordine e a garantire la libertà civile e religiosa dei cittadini, mentre la chiesa ha la piena sovranità di proclamare la propria fede senza le interferenze dello Stato. I confini delle sfere vengono travalicati e resi labili nel momento in cui lo Stato decide di identificarsi in una o più religioni, e surclassarne altre, negando così la completa libertà religiosa. La chiesa, d’altra parte, disubbidisce al suo mandato quando sbandiera i propri diritti, ma sotterra quelli altrui negando la libertà religiosa che lo Stato dovrebbe garantire. 

Oggi la Francia vive l’estremo opposto promuovendo la laicité de combat che polarizza le due sfere di sovranità evitando di farle dialogare, mentre l’Italia ha ripreso con i Patti Lateranensi il modello dell’editto di Nantes, elevando costituzionalmente la chiesa cattolica (art. 7) e relegando le altre confessioni religiose tra le sbarre della legge dei culti ammessi del 1929, permettendo la “scarcerazione” solamente con la stipula delle intese. I programmi politici elaborati dai partiti per le prossime elezioni terranno conto di questo squilibro e promuoveranno una legge sulla libertà religiosa? 

Un altro punto da approfondire è il modus operandi della chiesa cattolica. Secondo le fonti, dopo la strage, papa Gregorio XIII celebrò la vittoria della fazione dei Guisa facendo intonare un canto di ringraziamento, coniando una moneta con la sua effigie e incaricando il Vasari di affrescare le sale delle stanze vaticane con le immagini del massacro. L’atteggiamento adottato rispecchiava totalmente la romanità del concilio di Trento (1545-1563), promotrice di una politica intransigente e vessatoria nei confronti degli eretici (protestanti, musulmani, filosofi ecc.). 

Se da lato la romanità, tratto identitario distintivo del cattolicesimo, è stata messa in penombra ed è sfoderata all’occorrenza, dall’altro, la cattolicità promossa dal Concilio Vaticano II (1962-1965) è l’altra faccia della stessa medaglia scelta oggi per promuovere l’istituzione e mantenere la sua preminenza. L’arma scelta dall’arsenale non è più l’alabarda che arreca danni “carnali”, ma l’ecumenismo che assesta colpi “spirituali”, di gran lunga più avvilenti ed eternamente condannanti (Matteo 10,28). Il lasciapassare per la vita eterna non è la grazia ricevuta per la fede in Gesù Cristo sacrificatosi per il peccato dell'uomo, ma il battesimo che assume valore salvifico anziché testimoniale. Il motto della fazione cattolica che massacrò gli ugonotti era “une foi, un roi, une loi” (una fede, un re, una legge), mentre la Bibbia parla di un “solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Efesini 4,5). Senza ombra di dubbio 450 anni fa cattolici e protestanti sapevano di riferirsi a un Signore, una fede e un battesimo diverso. Oggi si potrà dire la stessa cosa? 


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