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Chi è il più grande predicatore dai tempi apostolici?

Secondo lo studioso evangelico John Gerstner, “il più grande predicatore dai tempi apostolici”, tenendo presente soprattutto i contenuti della sua predicazione, è stato Jonathan Edwards[1]. Un giudizio così forte può apparire volutamente esagerato, ma, pur essendo difficile stilare una classifica dei predicatori cristiani e individuarne i criteri generali, dà comunque l’idea del calibro della sua predicazione nell’ampio scenario della storia della chiesa. Predicare è stata la missione della sua vita e il punto più qualificante della sua vocazione di ministro cristiano. A distanza di tre secoli, la predicazione di Jonathan Edwards è ancora l’aspetto più conosciuto, ammirato e studiato di tutta la sua figura e i testi delle sue predicazioni (più di 1.100 scritti[2]) costituiscono la maggior parte delle sue opere. I risvegli spirituali di cui Edwards è stato uno strumento straordinario sono stati innescati e alimentati dalla sua predicazione. La fama che ha accompagnato la sua vita e che ancora oggi lo rende uno dei personaggi più conosciuti del protestantesimo americano è dovuta in gran parte alla sua predicazione. 

Edwards, predicatore puritano

Jonathan Edwards è stato un predicatore della tradizione puritana. Tra le sue letture giovanili, un posto considerevole lo ha avuto il manuale classico dell’omiletica puritana, The Art of Prophesying di William Perkins (1558-1602), oggi disponibile in italiano L’arte del profetizzare presso Alfa e Omega, un distillato di sapienza puritana che unisce la concezione alta della predicazione (intesa come “profezia”) e l’attenzione al modo in cui il sermone nasce e viene esposto (di qui, il riferimento alla predicazione come “arte”)[3]. Oltre allo studio dell’omiletica, il giovane Edwards è cresciuto ascoltando i sermoni del padre Timothy e del nonno Solomon Stoddard, due predicatori della stessa tradizione.

Tra le altre cose, il puritanesimo ha stabilito un modello di predicazione che si è stabilizzato nel tempo. Le sue caratteristiche erano la scritturalità (l’aderenza al testo biblico), il cristocentrismo (l’enfasi su Gesù Cristo), la logica argomentativa stringente e coinvolgente, la retorica che favoriva la memorizzazione, la finalità volta alla trasformazione delle vite, il carattere sperimentale (nel senso di essere legato all’esperienza della vita), la chiarezza espositiva[4]. Sulla scia di questa tradizione consolidata, Edwards ha svolto il suo ministero di predicatore dell’evangelo diventandone un interprete autorevole e un punto di riferimento importante per le generazioni successive[5]. Edwards aveva imparato dai puritani che la predicazione richiede preparazione e passione, rigore e slancio, densità e concretezza. Inoltre, sapeva che il predicatore doveva rivolgersi alla persona nella sua interezza, alla mente così come al cuore.

Nello sviluppo del suo servizio di predicatore, si possono individuare tre periodi in cui l’impegno omiletico si è caratterizzato in modo diverso[6]. Il primo è quello dell’apprendistato (1722-1727) in cui il giovane predicatore iniziò il ministero pastorale e dottorale e da cui sono pervenuti 65 sermoni. Si tratta di testi in cui è già ben visibile il modello puritano e lo spessore del predicatore. Il secondo periodo è quello della maturità (1727-1742) in cui il ministero di Edwards fu contrassegnato dalle straordinarie stagioni di risveglio spirituale a Northampton e altrove. Questa fu la fase più feconda e produttiva tanto che ci sono rimasti ben 645 sermoni. Il terzo periodo è quello della riflessione (1742-1758) in cui Edwards riutilizzò parecchio materiale omiletico elaborato in precedenza, dedicandosi con maggiore impegno alla stesura delle sue opere teologiche sul peccato originale[7], la libertà della volontà[8], il fine per cui Dio ha creato il mondo e le vere virtù. Di questi anni, sono pervenuti 510 sermoni, molti dei quali in forma abbreviata o schematica. 

Il suo stile omiletico non era brillante e trascinante: secondo John Smith, “i suoi punti deboli sembrano essere stati la voce, la gestualità e il ritmo”[9], mentre nella capacità di usare le risorse del linguaggio egli non conosceva rivali. I suoi sermoni, considerati come testi scritti, sono di una ricchezza teologica, intellettuale e letteraria impressionante. I suoi talenti di predicatore erano più di natura teologico-letteraria che strettamente oratoria.


[1] John Gerstner, “Edwards e la Bibbia”, Studi di teologia NS XV (2003/1) N° 29, p. 23.

[2] Nella collana completa delle opere di Edwards pubblicata dalla Yale University Press, ben 6 volumi su 26 sono dedicati a sermoni e discorsi. Si tenga comunque conto che anche altre opere di Edwards sono serie di sermoni, tracce di predicazioni o materiale di approfondimento in vista della predicazione. Per una presentazione dell’intera collana, rimando al mio articolo “Le opere di Jonathan Edwards”, Studi di teologia NS XV (2003/1) N° 29, pp. 72-77.

[3] Perkins pubblicò l’opera prima in latino (1592) e poi in inglese (1606). Essa è un trattato di interpretazione biblica finalizzato alla predicazione e contiene interessanti sezioni su come raggiungere diverse categorie di persone: i non credenti che sono anche indisponibili all’insegnamento; coloro che sono interessati; coloro che sanno ma non si sono mai umiliati; coloro che si sono umiliati; i credenti; quelli che si sono allontanati; una congregazione mista.

[4] Queste sette caratteristiche sono esplorate da Joseph A. Pipa, “Puritan Preaching” in P. Lillback (ed.), The Practical Calvinist. A Introduction to the Presbyterian and Reformed Heritage, Fearn, Christian Focus Publ. 2002, pp. 163-181. Una eco di questo modo di predicare può essere rintracciata, ad esempio, nei diversi volumi di Matthew Henry, Commentario biblico, Montreal, IPCC 1999- che, pur essendo un commento al testo biblico, mantengono lo stile omiletico originario e in George Whitefield, Una raccolta di sermoni, s.l., Alfa & Omega 1997.

[5] Un utile studio introduttivo e panoramico è Ralph Turnbull, Jonathan Edwards the Preacher, Grand Rapids, Baker Book House 1958. Più conciso, ma ugualmente utile, è l’articolo di Frederick S. Leahy, “Jonathan Edwards and Preaching”, The Banner of Truth 481 (2003) pp. 9-13.

[6] Per questa suddivisione ho preso spunto da John Hannah, “The Homiletical Skills of Jonathan Edwards”, Bibliotheca Sacra 159 (2002) pp. 96-107.

[7] Cfr. Andrea Ferrari, “Edwards, il peccato originale e la predicazione nell’età postmoderna”, Studi di teologia NS XV (2003/1) N° 29, pp. 38-53.

[8] Cfr. Leonardo De Chirico, “La libertà della volontà nel pensiero di Edwards”, Studi di teologia NS XV (2003/1) N° 29, pp. 25-37.

[9] John Smith, Jonathan Edwards: Puritan, Preacher, Philosopher, Notre Dame, University of Notre Dame Press 1992, p. 139. Tuttavia, studi recenti mostrano come la monotonia oratoria di Edwards sia un luogo comune più che una valutazione documentabile: cfr. Jim Ehrhard, “A Critical Analysis of the Tradition of Jonathan Edwards as a Manuscript Preacher”, Westminster Theological Journal 60 (1998) pp. 71-84..


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