Chiamato ad essere leader? Tre domande di verifica
Chi è un leader cristiano? Chi si pensa tale? Chi si autodichiara? Il modello Wikipedia, secondo cui in tutti i campi tutti si sentono autorevoli e autorizzati, rischia di entrare (se non lo ha già fatto) nella chiesa evangelica. La tentazione di autoproclamarsi pastori e di auto-regolarsi è un pericolo per tutti. Ecco perché una buona guida per pensare la leadership è quella di David Mathis, Collaboratori della vostra gioia. La chiamata, le qualità e l’opera della leadership cristiana, Roma, ADI Media 2023.
L’enfasi del libro non è sul servizio a tempo pieno e/o bi-vocazionale, ma sulla persona del leader. I pastori e futuri pastori della chiesa sono servi di Dio, lavorano per l’interesse di altri e per la gioia altrui. Avendo come riferimento testi come 1 e 2 Timoteo e Tito, il libro può aiutare il processo di selezione di nuovi leader, andando quindi ad intercettare l’esigenza di formare una “classe dirigente” all’altezza della vocazione.
Ci sono dei criteri che la Bibbia dice di rispettare, innanzi tutto relativi al carattere del candidato. L’A. ricorda che un pastore non deve essere arrogante (Tito 1,7), o di recente conversione (1 Timoteo 3,6). Infatti, la leadership cristiana deve essere caratterizzata da umiltà e forgiata dalla prova. L’umiltà è un elemento imprescindibile.
C’è un ulteriore elemento che l’A. mette in evidenza ed è la capacità d’insegnare. Questa qualità ha a che fare con l’insegnamento e con l’esercizio dell’autorità pastorale, correttamente intesa. I pastori non sono dei “gestori” della chiesa, ma degli insegnanti della sana dottrina (Tito 1,9). L’attività di insegnamento è accompagnata da un temperamento caratterizzato da gentilezza, amabilità, pazienza, così da orientare il comportamento delle persone verso il Vangelo (2 Timoteo 2,24-25). Di fianco all’attività di insegnare e alla competenza di governare, c’è quella di essere un esempio. I pastori non sono dei piccoli re o delle star, oppure degli “atleti performanti”, ma dei servitori e dei custodi. A queste caratteristiche se ne aggiungono altre: la rispettabilità, l’autocontrollo, la sobrietà dello stile di vita, la pratica dell’ospitalità. Allo stesso tempo, l’impegno pastorale conduce ad un avanzamento della missione che Dio affida alla chiesa, come per esempio la fondazione di nuove chiese, e il far crescere altre persone nel servizio della chiesa.
“Dio mi sta chiamando al servizio pastorale?”: questa è una domanda che molti si fanno. L’A. guarda alla chiamata da diverse prospettive, toccando la dimensione della vocazione percepita dal soggetto (esistenziale), quella del contesto locale (situazione) e quella delle porte che Dio apre se chiama (normativa). Certamente, avere il desiderio di essere pastore è un primo elemento per diventarlo, ma non l’unico. Non è una forzatura, ma è qualcosa che nasce dal cuore. L’aspirazione, pertanto, è il punto da cui partire. Ma c’è di più. La nostra società incoraggia a “seguire il nostro cuore” oppure a “non accontentarti di niente di meno che del tuo sogno”. Eppure, la cosa importante nel discernere la chiamata di Dio è lasciare che i bisogni reali degli altri incontrino e modellino i nostri cuori. La volontà di essere pastore ha alla base la volontà di servire gli altri, fare sacrifici extra, prendersi cura della chiesa e rispondere ai bisogni correnti. In altre parole, ci deve essere una conferma da parte del contesto intorno. Insomma, la chiamata al pastorato deve fare i conti con i bisogni della chiesa locale.
Inoltre, essa ha a che fare con le possibilità che Dio apre. C’è un elemento normativo nel processo di approvazione al pastorato cristiano che può essere riassunto in questa domanda: “Dio sta aprendo le porte alla possibilità di servire come leader? Mi sta chiamando Lui?” Uno può avere la volontà, gli altri possono confermare, ma se Dio non apre le porte per questo servizio, non c’è niente da fare. È Dio alla fine a decidere.
Se ci si sofferma solo sulla prima prospettiva (personale), il rischio è di avere piccole star egocentriche e auto-referenziali. Se ci soffermiamo solo sul bisogno della chiesa (contesto), il rischio è quello di avere pastori che vivono con l’acqua alla gola l’ufficio a loro imposto. Se invece vediamo solo alle opportunità di servizio al pastorato, senza considerare la chiesa locale e l’attitudine personale, si rischia un “rigetto” del tentativo d’innesto.
Queste tre prospettive devono essere tenute insieme. Si tratta di un processo che la Scrittura ci invita a considerare nel discernimento e nel riconoscimento delle vocazioni. Se partissimo da qui, avremmo già una griglia iniziale per avere pastori secondo il cuore di Dio e non piccoli-grandi palloni (s)gonfiati.