Cosa vuol fare da grande il movimento pentecostale? Un libro per iniziare a rispondere

 
 

A distanza di più di un secolo dalla nascita del movimento pentecostale moderno, la domanda sulla natura teologica della più numerosa componente del cristianesimo globale è legittima. Ora che ha più di 120 anni, cosa vuol fare da grande?


Ad inizio del Novecento, il pentecostalismo fu una costola del fondamentalismo evangelico da cui ereditò un’alta concezione della Scrittura (contro il liberalismo) e un’adesione al cuore della fede evangelica (necessità della conversione, esclusività di Cristo, centralità della croce). Su questo nucleo fondante, furono innestate le specificità pentecostali del battesimo della Spirito Santo e della glossolalia. Anche se non sempre le relazioni iniziali furono serene e pacifiche, era chiaro che il tronco del pentecostalismo era l’evangelicalismo.


Molta acqua è passata sotto i ponti del pentecostalismo. Da una parte vi è stata l’istituzionalizzazione (cioè la creazione di denominazioni “pentecostali”); dall’altra il movimento ha conosciuto diverse “ondate” che lo hanno variegato in senso carismatico o “neo-pentecostale” e rimodulato in forme diverse rispetto alle origini. Si pensi a fenomeni come le “benedizioni di Toronto” (tra le altre) o il “vangelo della prosperità”. Inoltre, da essere integrato nell’evangelicalismo contemporaneo, il movimento nelle sue varianti “carismatiche” si è anche insediato nel cattolicesimo (dopo il Concilio Vaticano II), nell’ortodossia orientale e anche nel liberalismo protestante. Oggi i carismatici si trovano un po’ su tutto lo spettro della cristianità e l’imprinting evangelico sembra sbiadito.


La domanda allora è: ma il movimento pentecostale è quintessenzialmente evangelico o è una variabile indipendente che può insediarsi e fiorire su piattaforme teologiche molto diverse?


Ad affrontare l’interrogativo è il libro di Robert P. Menzies, Cristo al centro. La natura evangelica della teologia pentecostale, Roma, ADIMedia 2024. Sono due gli argomenti portanti del libro: uno storiografico e l’altro più propriamente teologico.


Sul versante storico, Menzies sottolinea il carattere evangelico del movimento pentecostale delle origini. L’humus spirituale è quello del fondamentalismo evangelico di fine Ottocento/inizio Novecento sfociato nella pubblicazione dei volumetti The Fundamentals (1910-1915) a difesa dei cardini della fede cristiana contro le re-interpretazioni liberali del tempo. Un interessante capitolo è dedicato alla figura di R.A Torrey (1856-1928) che è uno studioso cerniera tra gli evangelici nordamericani del tempo e i pentecostali della prima ora. 


E’ indubbio che, storiograficamente parlando, le origini del pentecostalismo affondano le radici nel movimento evangelico. Ma si può dire altrettanto della sua teologia? Per Menzies, la teologia pentecostale ha un suo DNA evangelico essendo ancorata alla Bibbia e orientata in senso cristocentrico (prima che pneumatocentrico). Nella sua interpretazione, all’enfasi paolina dell’evangelismo classico, il pentecostalismo avrebbe apportato una sottolineatura lucana (opera dello Spirito e missione). La radice biblica è la medesima, ma gli accenti sono diversi. Questa tesi è contraria a quella dello studioso del pentecostalismo Walter Hollenweger secondo cui il movimento sarebbe non-teologico e dipenderebbe dai contesti in cui si manifesta.


Per Menzies, invece, sono i principi formali (sola Scrittura) e materiali (solo Cristo e sola fede) della Riforma protestante a costituire gli argini entro cui scorre l’esperienza “risvegliata” tipica del pentecostalismo. Per lui, “tutti gli evangelici, inclusi i pentecostali, sono figli di Lutero e della Riforma” (p. 183). Per lui, questo non è solo un dato storico, ma è anche teologico. 


Questa tesi è tutt’altro che pacifica dentro il più ampio e variegato mondo carismatico. Menzies dedica un capitolo alla discussione delle opere di due teologi carismatici molto in voga negli ambienti ecumenici: il finlandese Veli-Matti Kärkkäinen e il malese-americano Amos Yong (entrambi docenti al Fuller Theological Seminary). Questi autori sono parte di una rilettura del movimento pentecostale volta ad ampliarla in senso ecumenico ed inter-religioso, operando uno sganciamento dell’enfasi pneumatologica dagli ancoraggi biblici (conservatori) e cristologici (esclusivisti) del movimento pentecostale delle origini. Per questi autori, il pentecostalismo sarebbe una corrente “dello Spirito” trasversale alle religioni e appartenente all’esistenza umana in generale. Per Menzies si tratta di un tradimento della storia e della teologia del pentecostalismo. 


Peccato che Menzies non si misuri con la teologia carismatica cattolica (molto influente nel movimento ecumenico contemporaneo) che presenta la corrente carismatica come interprete e portatrice di “unità” tra cattolici, evangelici e ortodossi. Anche questa corrente tradisce la storia e la teologia evangelica del movimento pentecostale? 


In ogni caso, la tesi dell’autore è che se il movimento pentecostale perde la sua identità evangelica, “perderemo la strada e Dio susciterà altri al fine di portare nuova linfa alla Sua opera” (p. 253).