Il futuro dell’apologetica è narrativo? Dibattiti in corso

 
 

Il futuro dell’apologetica sarà narrativo, oppure la difesa della fede perderà in rilevanza perché continuerà ad insistere su domande che pochi fanno e a battere su punti che pochi considerano decisivi. E’ questo il parere di due teologi olandesi – Arjan Markus e Benno Van den Toren – nel loro saggio “Tell me a Good Story: The Need and Legitimacy of Narrative Apologetics”, European Journal of Theology 33 (2024/1) pp. 79-100.

Storicamente, dalla modernità in poi, l’apologetica ha cercato di presentare la fede cristiana secondo i criteri di ragionevolezza del credo, di storicità della rivelazione biblica e di coerenza interna del messaggio evangelico. E’ su questo terreno che sono state offerte le “evidenze” per credere (ad esempio: le prove della resurrezione, l’armonia dei vangeli, gli argomenti creazionisti, ecc.) e sono state combattute le contestazioni dello scetticismo, se non proprio dell’ateismo moderno. Già a fine Ottocento, però, un fine teologo cattolico come John Henry Newman si chiedeva se la difesa della fede non dovesse farsi carico più dell’immaginario che della ragione, cioè raccontare più storie che sciorinare evidenze, toccare le corde emotive più che quelle della logica. Il punto è che le storie sollecitano la fantasia e fanno scattare meccanismi di identificazione. Smuovono le emozioni e fanno partecipare alle storie.

In effetti, la rivelazione biblica è una storia fatta di tante storie che vanno raccontate. Nella misura in cui quelle storie impattano la nostra, ecco che, a nostra volta, diventiamo testimoni che la raccontano ad altri. Nelle parole degli autori, “attraverso l’apologetica dovremmo invitare le persone a immaginare il mondo da una prospettiva cristiana e ad immaginare come sarebbe la vita se fosse vissuta in modo cristiano”. Il biglietto d’ingresso nella fede non è quello della logica o della razionalità soltanto, ma è prima di tutto di natura narrativa. D’altra parte, basta farsi una domanda: come vengono a Cristo la maggior parte delle persone? Attraverso l’ascolto di testimonianze di credenti o tramite lo studio delle cinque prove dell’esistenza di Dio?

La sottolineatura degli autori è valida: se l’apologetica è fatta solo di argomenti razionali(sti) e non di immagini e di storie, è un’apologetica limitata e riduttiva. Se l’apologetica tocca solo la ragione ma non il cuore, è scarsa e, alla fine, inconcludente. In più, l’apologetica non vive in modo sganciato dalle domande della cultura che la circonda. Nell’Ottocento, le obiezioni al cristianesimo mettevano in discussione la veridicità dei fatti biblici o la credibilità dei racconti evangelici o la scientificità degli argomenti della fede: era giusto che l’apologetica affrontasse questi temi cercando di difendere la sostenibilità del cristianesimo. Oggi, indebolitosi lo scientismo e relativizzatosi il discorso sul primato della ragione, sono le storie ad essere percepite come più impattanti. 

La domanda semmai è: perché contrapporre apologetica narrativa e apologetica argomentativa? Davvero una va a scapito dell’altra o non sono piuttosto due facce della stessa medaglia? Anche se la soglia d’interesse verso la fede può essere narrativa, prima o poi le domande sull’affidabilità della Bibbia e sulla coerenza del messaggio cristiano emergono. Non una senza l’altra, ma una con l’altra. 

Un ultimo punto. Dopo l’osservazione di Newman sul bisogno di un’apologetica che facesse leva sull’immaginario, in ambito cattolico, scrittori come J. Tolkien e G. Chesterton (insieme a C.S. Lewis che cattolico non era, ma comunque dalla fede “teista” compatibile col cattolicesimo romano) hanno letteralmente creato un mondo di storie, personaggi, vicende, fiabe, ecc. che hanno popolato l’immaginario di intere generazioni: Narnia, Il Signore degli Anelli, lo Hobbit, ecc. Ancora oggi, molti evangelici quando si rivolgono all’immaginario letterario pensano a scrittori cattolici come i sopracitati che li proiettano in storie del medioevo fantastico. Gli evangelici sono stati meno “creativi” dei cattolici: hanno continuato a produrre apologetica argomentativa, ma, almeno dopo John Bunyan nel Seicento col suo Pellegrinaggio del cristiano, non hanno creato mondi dell’immaginario tramite romanzi, poesie, film, pièce teatrali. La creatività degli evangelici è stata limitata, quasi strozzata. 

Il richiamo di Markus e Van den Toren è utile, a patto che non implichi una sostituzione o una contrapposizione. A noi è chiesto di raccontare la nostra testimonianza di fede, ma anche di rendere ragione della speranza che è in noi (1 Pietro 3,15). La fede può essere detta “in molte maniere” (Ebrei 1,1), ma non sfugge alla responsabilità di essere “dimostrazione di cose che non si vedono” (Ebrei 11,1).