Paolo Ricca (1936-2024). Tre nomi per iniziare a fare i conti con la sua teologia

 
 

Un breve articolo non è sufficiente per rendere ragione dell’ampiezza dell’opera di Paolo Ricca (1936-2024), teologo valdese da poco scomparso. Essa ha attraversato la seconda metà del Novecento e ha segnato la pubblicistica teologica italiana sino ad oggi. Inoltre, ha spaziato tra i giovanili studi neo-testamentari (la sua tesi di dottorato a Basilea fu sull’escatologia del vangelo di Giovanni, direttore di tesi Oscar Cullmann) a quelli sulla storia della Riforma (specialmente Lutero), passando da libri importanti di teologia divulgativa (gli ultimi sul battesimo, la cena e il culto) e da un’infinità di articoli su riviste protestanti e cattoliche. Ricca è stato un teologo che ha attraversato le rigide distinzioni della teologia accademica (biblica, storica, sistematica e pratica), disseminando un pensiero profondo e trasversale, in dialogo con le correnti europee e mondiali del dibattito teologico, sempre con un’originalità propria che lo ha reso un autore letto anche in ambito cattolico e un predicatore dalla parola affascinante.

Difficile e rischioso fare i conti in poche battute con un teologo di questa statura. In via del tutto preliminare, tre nomi presenti sullo sfondo dell’esistenza teologica di Ricca aiutano a misurarsi con essa: Oscar Cullmann, Karl Barth e Martin Lutero. Ricca non è stato un mero discepolo, ma un interprete e prolungatore a suo modo originale di ciascuno di loro. 

1. L’influenza più importante di Cullmann su Ricca non è stata quella della tesi su Giovanni, bensì quella sulla visione dell’ecumenismo, riassunta nella concezione dell’unità come “diversità riconciliata”. Si può dire che la teologia di Ricca sia stato il tentativo italiano di rappresentare questa istanza soprattutto nel rapporto col cattolicesimo. Già osservatore al Concilio Vaticano II e autore di un instant-book sul cattolicesimo uscito dal Concilio (Il Cattolicesimo del Concilio,1966), Ricca ha via via modificato la sua chiave di lettura prevalente del cattolicesimo: dall’espansione inglobante della cattolicità (la lezione di Vittorio Subilia) a quella di una forma accettabile di cristianesimo, ingessato sì su alcune pratiche discutibili, ma con cui essere in relazione riconciliata. In sostanza: non più davanti al cattolicesimo e semmai teologicamente contro di esso, ma a fianco e sempre con il cattolicesimo. Questa è stata la posizione che Ricca ha contribuito a far diventare quella ufficiale del protestantesimo storico italiano. E’ chiara la sua influenza sul documento “Ecumenismo e dialogo interreligioso” (1998) approvato dal Sinodo valdese di quell’anno in cui si afferma esattamente questo: l’evangelismo non è più alternativo al cattolicesimo, ma complementare ad esso e in una relazione circolare di scambio di doni.

La sua interpretazione dell’eredità della Riforma si è adeguata alla teologia della “diversità riconciliata”. Il lascito della Riforma non è stato visto nella sua confessionalità quanto nel contributo “moderno” all’ecumene cristiana, a patto di spurgarlo dalle puntature dottrinali scolpite nei suoi “sola, solus”. Ricca non ha fatto diventare ecumenico il protestantesimo italiano (i fermenti erano presenti prima di lui e altri hanno lavorato con lui in questo senso), ma con la sua autorevolezza e rete di relazioni lo ha assuefatto all’ecumenismo come scelta irreversibile. Con Ricca, il protestantesimo storico italiano ha definitivamente perso la sua carica evangelica alternativa. E’ rimasto fenomenologicamente diverso, ma spiritualmente compatibile col ed integrabile al cattolicesimo romano. 

Per gli evangelici che pensano che l’evangelo stesso chieda di scardinare il sistema cattolico (non adeguarsi e scendere a patti con esso), questo pezzo di eredità della teologia di Ricca è altamente problematico perché segna la fine della carica evangelistica in vista della fondazione di chiese evangeliche fedeli alla Parola e la compiuta assuefazione ad un cristianesimo ecumenico riconciliato con l’istituzione, la dottrina e le pratiche del cattolicesimo romano.

2. In secondo luogo, Ricca è stato spesso e giustamente associato alla teologia di Karl Barth. Anche qui, bisogna tenere presente la statura propria del teologo italiano che è stato influenzato da Barth, senza vivere all’ombra del teologo svizzero. Di Barth, Ricca ha sposato la teologia della Parola come molti della sua generazione di pastori valdesi. Questa visione derubrica la Bibbia a testimonianza umana (fallibile, datata, limitata) e associa la Parola ad un “evento” che accade, non più nel testo biblico. Così facendo, abbraccia il metodo storico-critico e i suoi presupposti, si smarca dagli insegnamenti biblici considerati “scorretti” e re-interpreta la fede cristiana elevando il proprio “canone nel canone” a criterio discriminante. La storia e la fede sono ambiti separati (ad esempio, Ricca dice che Marco scrive dalla “prospettiva della fede”: Secondo Marco, 2023), ma se, storicamente parlando, la Bibbia non è una notizia affidabile come il Dio che l’ha ispirata su cosa si basa l’assenso e la fiducia, cioè la fede? Come abile predicatore, Ricca poteva anche impressionare le platee evangelicali con la sua forbita e “sentita” teologia della Parola. Molti evangelici (compresi molti pentecostali), dopo averlo ascoltato, facevano l’esperienza di Agrippa di fronte a Paolo: “Quasi quasi mi convinci” (Atti 26,28). In filigrana, tuttavia, la sua non era la teologia evangelica classica della Parola, ma una sua revisione che aveva perso fiducia nella Bibbia come Parola di Dio ispirata in senso plenario e inerrante in tutto ciò che afferma, suprema autorità in ogni materia di fede e di vita. Per quanto suadente si presenti, la Parola come “evento” è figlia legittima del liberalismo e non della fede evangelica propriamente intesa.

L’eredità di Barth è stata presente anche in altri quadranti. Ricordo l’intervento di Paolo Ricca alle Giornate teologiche dell’IFED di Padova del 1995 su “Sapere e credere: incontri e scontri con la cultura moderna”. In quel convegno, Ricca parlò dell’apologetica protestante dopo Barth. Notò come le facoltà di teologia protestanti avessero abolito la cattedra di apologetica, di fatto togliendo il tema della credibilità dell’evangelo dall’orizzonte della vita cristiana. In puro stile dialettico, ne parlava con una velata critica, senza per questo andare a fondo e schierarsi per la difesa della fede in senso evangelico. Vedeva il baratro a cui la teologia liberale aveva portato il protestantesimo, ma pensava di farvi fronte con le continue oscillazioni della teologia dialettica. Anche i suoi recenti tentativi di recupero dell’apologetica (Dio. Apologia, 2022; L’Evangelo della creazione, 2023) risentono di questa irrisolta tensione dialettica, propria della teologia barthiana. Dopo aver picconato per decenni l’affidabilità della Scrittura e la solidità della fede cristiana, come fa ad essere moralmente credibile un’apologetica che non prende le distanze dalla miscredenza e non ricostruisce il proprio discorso su fondamenta bibliche, senza i se e i ma della teologia dialettica?

3. Il terzo e ultimo luminare a cui Paolo Ricca ha associato la sua opera teologica è Martin Lutero. Oltreché studioso del pensiero del Riformatore tedesco (Lutero mendicante di Dio, 2010), Ricca è stato il curatore della pubblicazione delle opere scelte di Lutero, in corso presso la Claudiana. Salvo errore, si tratta ad oggi di ben 19 volumi con testo a fronte. Essi sono delle risorse indispensabili per tutti coloro che vogliono cimentarsi con le fonti della Riforma, mettendo a disposizione del lettore italiano i testi di uno dei suoi padri. Questo è stato un contributo di Paolo Ricca per il quale sono riconoscenti non solo i protestanti italiani, ma tutti i cultori di storia religiosa in generale. In un’Italia ancora sostanzialmente ignorante rispetto alla Riforma, le opere di Lutero in italiano sono un tesoro a cui fare riferimento.

La parola evangelica di Lutero, per quanto a tratti aspra e, in taluni punti, da contestualizzare al suo tempo, è forse quello che l’Italia contemporanea deve ancora ascoltare. La sua presa di posizione davanti alla Dieta di Worms nel 1521 conserva intatta la sua attualità evangelica:

“A meno che non venga convinto da testimonianze delle Scritture o da ragioni evidenti; poiché non confido né nel Papa, né nel solo Concilio, poiché è certo che essi hanno spesso errato e contraddetto loro stessi. Io sono vincolato dalle Scritture che ho citato e la mia coscienza è prigioniera della Parola di Dio. Non posso e non voglio ritrattare nulla, perché andare contro coscienza è disonesto e pericoloso. Non posso fare diversamente. Qui io sto! Che Dio mi aiuti! Amen”.

Da ieri a oggi, sulla scia di Lutero, più che una voce protestante al coro ecumenico o un buffetto all’incredulità moderna, l’annuncio evangelico non deve mai perdere di vista il fatto che la fedeltà al Signore impone la lotta (non l’armistizio) all’idolatria, ovunque essa si annidi. Come si è accennato nei precedenti due punti, è legittimo avere interrogativi sul carattere propriamente evangelico della teologia di Paolo Ricca. Detto questo, con il suo ammirevole lavoro editoriale, il teologo valdese ha dato all’Italia la possibilità di avere accesso “ad fontes” alla Riforma protestante.