Un’altra “cristiana culturale”? La storia di Ayaan Hirsi Ali

 
 

Convertirsi al cristianesimo culturale dall’ateismo. Prima che l’ateo Richard Dawkins annunciasse di riconoscersi come “cristiano”, anche Ayaan Hirsi Ali aveva fatto lo stesso.

Condannata a morte, con una fatwa, Ayaan Hirsi Ali aveva abbandonato l'Islam per diventare atea. Ora è cristiana. Scrittrice, sceneggiatrice e attivista politica somala, naturalizzata olandese, figlia di Isse Hirsi Magan, noto esponente della Rivoluzione democratica somala (1986-92), durante la prigionia del padre ha subito a cinque anni la pratica dell’infibulazione, una violenza verso il genere femminile diffusa in diverse aree depresse dell’Africa subsahariana. Nel 2004 ha osato scrivere il testo di un cortometraggio intitolato Submission, realizzato dal regista olandese Theo Van Gogh, in cui si racconta la storia di alcune donne islamiche vittime di abusi e maltrattamenti inflitti nel nome di Allah e nel rispetto della legge coranica. Per questo cortometraggio, Theo Van Gogh ha pagato con la vita. È stato ucciso ad Amsterdam, per strada, da un immigrato marocchino.

 Ayaan Hirsi Ali ha raccontato la sua conversione alla fede cristiana sul sito Unherd, nel quale ha spiegato che la sua scelta non è stata motivata da nessun calcolo politico, ma da un cambiamento profondo e reale a conclusione di un percorso da lei definito: "Un lungo viaggio attraverso un deserto di paura e insicurezza" In Italia la Rizzoli ha pubblicato due suoi libri Infedele, nel 2007 e Nomade, nel 2010. Questa è una sintesi della sua testimonianza:

Nel 2002 ho letto il testo di una conferenza del 1927 di Bertrand Russell dal titolo Perché non sono cristiano. Mentre lo leggevo, non avrei mai immaginato che un giorno, quasi un secolo dopo, avrei scritto un saggio con il titolo esattamente opposto.

L’anno prima avevo condannato pubblicamente gli attacchi terroristici dei 19 uomini contro le Torri Gemelle di New York. Lo avevano fatto in nome della mia religione, l’Islam. Allora ero musulmana, anche se non praticante, ma era chiaro che ciò che giustificò quegli attentati era la Jihad o guerra santa contro gli infedeli. Era possibile per me, come per molti membri della comunità musulmana, prendere semplicemente le distanze da quell’azione e dai suoi orribili risultati?

Quando lessi il testo di Russell scoprii che la mia distanza con le sue tesi si stava attenuando. Per me fu un sollievo avere un atteggiamento scettico nei confronti della religione, e rifiutare l'esistenza di Dio. Così potevo anche rifiutare l'esistenza dell'inferno e il pericolo della punizione eterna. L'affermazione di Russell secondo cui la religione si basa principalmente sulla paura mi colpì. Avevo vissuto troppo a lungo nel terrore di tutte le raccapriccianti punizioni che mi aspettavano. Sebbene avessi abbandonato tutte le ragioni razionali per credere in Dio, quella paura irrazionale del fuoco dell’inferno persisteva ancora. La conclusione di Russell giunse quindi come una sorta di sollievo: “Quando morirò, marcirò”.

Per capire perché 20 anni fa sono diventata atea, è necessario prima capire che tipo di musulmana ero stata. Ero un'adolescente quando, nel 1985, i Fratelli Musulmani penetrarono nella mia comunità a Nairobi, in Kenya. Prima dell'arrivo dei Fratelli Mussulmani avevo sopportato i rituali delle abluzioni, delle preghiere e del digiuno come noiosi e inutili. Queste persone furono in grado di indicarci una direzione: la retta via. Uno scopo: lavorare per l'ammissione nel paradiso di Allah dopo la morte. Un metodo: il manuale di istruzioni del Profeta su cosa fare e cosa non fare, halal e haram

Questi predicatori non lasciavano nulla all'immaginazione. Se ti sforzi di vivere secondo il Profeta raccogli le gloriose ricompense nell'aldilà. Su questa terra, nel frattempo, la più grande conquista possibile era morire come martire per amore di Allah. L'alternativa era abbandonarsi ai piaceri del mondo, meritarsi l'ira di Allah ed essere condannati a una vita eterna nel fuoco dell'inferno. Alcuni dei “piaceri mondani” che denigravano includevano leggere romanzi, ascoltare musica, ballare e andare al cinema – tutte cose che mi vergognavo di ammettere che adoravo.

La qualità più sorprendente dei Fratelli Musulmani è stata la loro capacità di trasformare me e i miei compagni adolescenti da credenti passivi in attivisti, quasi da un giorno all’altro. Non abbiamo semplicemente detto cose o pregato per cose: abbiamo fatto cose. Con loro abbiamo condiviso le nostre preoccupazioni, ad esempio, cosa dovevamo fare con i nostri amici che rifiutavano di accettare il nostro dawa (invito alla fede)? Senza mezzi termini ci fu detto che non potevamo essere leali verso Allah e Maometto, e allo stesso tempo essere amici con i non credenti. Se avessero rifiutato il nostro appello all’Islam dovevamo odiarli e maledirli. Un odio speciale era riservato agli ebrei.  

Chi ha seguito una simile istruzione religiosa, può capire perché l'ateismo mi sembrò così attraente. Bertrand Russell offriva una via di fuga semplice e a costo zero da una vita così insopportabile. La religione, sosteneva Russell, era radicata nella paura: “La paura è la base di tutto: paura del misterioso, paura della sconfitta, paura della morte”.

Perché adesso mi definisco cristiana? Parte della risposta è globale. La civiltà occidentale è minacciata da tre forze diverse ma correlate: la rinascita dell’autoritarismo e dell’espansionismo delle grandi potenze, l’ascesa dell’islamismo globale, che minaccia di mobilitare una vasta popolazione contro l’Occidente; e la diffusione virale dell’ideologia del woke che sta divorando la fibra morale della prossima generazione.

Come possiamo combattere queste forze se non riusciamo a rispondere alla domanda: cos'è che ci unisce? La risposta che “Dio è morto!” mi sembrò insufficiente. L’unica risposta credibile credo che si trovi nella tradizione giudaico-cristiana che consiste in un insieme elaborato di idee e istituzioni progettate per salvaguardare la vita, la libertà e la dignità umana – vale a dire nello stato di diritto. Russell e altri attivisti atei credevano che senza Dio saremmo entrati in una nuova era umanistica e ragionevole, invece siamo stati solo riempiti da un’accozzaglia di dogmi irrazionali e para-religiosi.

Per me, questa libertà di coscienza e di parola è forse il più grande vantaggio della civiltà occidentale. Questo è il prodotto di secoli di dibattiti all’interno delle comunità ebraiche e cristiane che hanno fatto avanzare la scienza e la ragione, diminuito la crudeltà, soppresso le superstizioni e costruito istituzioni per ordinare e proteggere la vita, garantendo allo stesso tempo la libertà a quante più persone possibile. E' sempre più chiaro che l'insegnamento di Cristo implica non solo un ruolo circoscritto della religione come qualcosa di separato dalla politica, ma anche compassione per il peccatore e umiltà per il credente.

Mi sono rivolto al cristianesimo anche perché alla fine ho trovato insopportabile la vita senza alcun conforto spirituale, anzi quasi autodistruttiva. L’ateismo non è riuscito a rispondere a una semplice domanda: qual è il significato e lo scopo della vita?

Naturalmente ho ancora molto da imparare sulla fede cristiana. Ogni domenica, in chiesa, scopro qualcosa in più. Ma ho riconosciuto, nel mio lungo viaggio attraverso un deserto di paura e insicurezza, che esiste un modo migliore per gestire le sfide dell’esistenza rispetto a quello che l’Islam o l'ateismo avevano da offrire.

La testimonianza di Ayaan Hirsi Ali merita molta attenzione. Il suo percorso è stato difficile ma onesto, ha voluto "leggere i tempi" e farsi le giuste domande. Ma sarebbe parziale se ci fermassero solo ai fatti senza considerare il senso di certe affermazioni. Come con il caso di Richard Dawkins, stanno emergendo sempre di più pensatori che, recalcitranti rispetto alle verità oggettive della fede cristiana, e sebbene disillusi dalla politica del “nuovo ateismo”, si ritrovano nella difficile situazione di essere "affamati" del frutto della fede cristiana, ma refrattari nel credere nell'esistenza dell'albero.

Quando è stata intervistata, Hirsi Ali non ha voluto dire quale chiesa frequenta, né quale sia la sua denominazione cristiana. Quando afferma i motivi per cui si dichiara cristiana, la sua risposta è più di tipo sociologico: "La civiltà occidentale è minacciata da tre forze diverse ma correlate: l’autoritarismo, l’ascesa dell’islamismo e la diffusione virale dell’ideologia del woke". Forse qualunque politologo non credente avrebbe detto la stessa cosa! 

Riconosce che la fede cristiana è il "modo migliore per gestire le sfide dell’esistenza rispetto all’Islam o l'ateismo". Mi chiedo se ciò non riduca la fede cristiana a una sorta di indumento protettivo da indossare come misura pratica contro queste forze destabilizzanti. Il “vuoto di Dio” che dilania la società, per lei si supera ritornando alla tradizione giudaico-cristiana, cioé alla difesa della civiltà e dei suoi valori. E' possibile godere i frutti di questa tradizione senza fare i conti con le condizioni che chiede il Vangelo? Lei si è avvicinata alla fede cristiana perché "sentiva il bisogno di conforto spirituale": è possibile cercare questo conforto senza partire dalla proria condizione di peccato e confessare Gesù Cristo come Signore e Salvatore? Dio conosce il cuore di Hirsi Ali e sa tutto. In ogni caso, il cristianesimo culturale non è ancora la fede biblica.