Se lavorare non basta non è colpa dell’etica protestante. Nota ad un libro di Marianna Filandri

 
 

Che i lavoratori italiani sono quelli che guadagnano di meno rispetto a tutti gli Stati dell’Europa è un dato di fatto. Che i lavoratori italiani abbiano subito la flessibilità del mercato del lavoro nessuno lo mette in dubbio. Che sul tavolo del governo ci sia la questione del “lavoro povero” certamente non lo si può nascondere. Ma che c’entra tutto ciò con l’etica protestante? 

Per Marianna Filandri, sociologa dell’Università di Torino, c’entra. Nel suo libro Lavorare non basta, Bari, Laterza 2022, l’autrice fa una fotografia del mercato del lavoro in Italia e, dati alla mano, mostra come avere un lavoro non è più garanzia di benessere. Le condizioni di partenza rispetto alla famiglia di origine influenzano molto la carriera lavorativa. Per Filandri chi è ricco ha più probabilità di avere una posizione lavorativa più retribuita perché può accedere a scuole più prestigiose, può dedicare più tempo allo studio, ecc. Questo catena di ricchezze e di possibilità viene tramandata fino al punto che la ricchezza rimane sempre di più nelle mani di pochi. Dunque, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. 

Per Filandri il problema risiede nel “culto” del lavoro. L’operosità e l’accumulo di ricchezza sono il male più grande. Come spesso accade, il male è da riconoscere nell’etica protestante del lavoro, che fonda lo spirito del capitalismo: la vecchia, trita e ritrita tesi weberiana che viene riproposta ancora. Ora, al netto dei dati che mostrano come il lavoro povero sia una conseguenza di un mercato del lavoro caratterizzato da ingiustizia e sfruttamento (denunciati nel libro) ma anche superficialità e irresponsabilità che bisogna denunciare, è doveroso sfatare il mito che dall’etica protestante nascano tutti i mali dell’economia moderna. 

Già lo storico francese Fernand Braudel aveva mostrato come, storicamente parlando, il capitalismo non nacque con la Riforma ma nei comuni medievali. Inoltre, Alistair McGrath nel suo volume Giovanni Calvino. Il Riformatore e la sua influenza sulla cultura occidentale (1991) ha ulteriormente argomentato l’infondatezza della tesi weberiana. Fu Amintore Fanfani, che “dando fiato alla sua decisa antipatia per il protestantesimo [...] ha sostenuto che il cattolicesimo medievale era radicalmente e inalienabilmente anti-capitalistico" (p. 285). È evidente che strumenti e metodi propri del capitalismo moderno sono antecedenti alla Riforma. Per McGrath dire che il capitalismo trova le sue radici nel protestantesimo è un’assurdità, anche perché persino Weber aveva sostenuto che il capitalismo esisteva già prima (p. 286). 

Semmai con la Riforma il lavoro acquisisce una connotazione positiva. Infatti, se nel medioevo il lavoro era caratterizzato da dicotomia, in una sintesi di lavoro secolare e contemplazione che squalifica il lavoro stesso, con la Riforma si assiste ad un cambiamento. Il lavoro riacquisisce una sua dignità propria, è un’attività che caratterizza la vita umana e che va perseguita con standard qualitativi alti. Il lavoro è una vocazione divina; pertanto la pigrizia e l’ozio non sono contemplati. D’altronde è sempre giusto il detto paolino “chi non lavora neppure mangi” (1 Tessalonicesi 3,10). 

Tra l’altro, andando più avanti, nel filone della Riforma, cioè nel Puritanesimo, il lavoro è visto come una benedizione. Perciò tutta la vita deve essere un culto a Dio, compreso il lavoro, non solo in termini di performance, ma anche di condizioni giuste. Va ricordato che è proprio in questa cornice sociale e teologica che viene attuato lo Slave Trade Act 1807 nel Regno Unito con attore principale in William Wilberforce, con cui veniva abolita la tratta di schiavi nell’Impero britannico. Questo non ha niente a che vedere con il culto del lavoro, o l’idolatria del lavoro, ma bensì con un’etica del lavoro che onora Dio, tiene conto della dignità umana e cerca l’eccellenza in ogni mansione. 

Tornando a Filandri, la sociologa sostiene che denunciare il culto del lavoro significa anche considerare il lavoro per quello che è nella sua funzione: fornire i mezzi di sostentamento per vivere contribuendo al funzionamento della società. Per lei sembra che il lavoro sia un bene in sé, né tantomeno un servizio indispensabile.

Invece, nel lavoro c’è di più. La funzione del lavoro non si esaurisce al solo percepimento dello stipendio e non è valutabile sono con un criterio economico. Solo l’etica cristiana può promuovere una visione più ampia del lavoro, ovvero quella in cui il lavoro tiene conto del perché lavoriamo, delle reti di collaborazione, fatte di persone, in condizioni di giustizia che non lascino indietro nessuno, ma che diano a tutti la possibilità di lavorare per rispecchiare la dignità della vita ricevuta e per contribuire al suo sviluppo. Solo così il lavoro può essere un buon lavoro!