La prova più convincente del cristianesimo? Per Atanasio c’entra la morte
Sulle prove dell’esistenza di Dio si sono cimentati giganti medievali come Anselmo e Tommaso d’Aquino. Quest’ultimo ne ha fornite addirittura cinque all’inizio della sua Summa Theologiae. In realtà, più che prove si tratta di indizi, spunti, argomenti induttivi che portano a considerare l’esistenza di Dio come ragionevole se si hanno presupposti liberati da pregiudizi antagonisti.
Il discorso sulle prove dell’esistenza di Dio conosce un’intensificazione nel Medioevo, ma non nasce in quel periodo. Già un padre della chiesa come Atanasio (293-373) aveva sfiorato il tema, ma da un’angolazione molto diversa. Nella sua opera L’incarnazione del verbo (ed. it. a cura di E. Bellini, Roma, Città Nuova 20054), Atanasio espone la fede cristiana che ha al proprio centro l’incarnazione del Figlio di Dio nella persona di Gesù Cristo, contro gli ariani che invece negavano la divinità di Gesù. Per Atanasio, la Parola si è fatta carne per restituire all’umanità la conoscenza di Dio corrotta dal peccato. Morendo, la Parola incarnata ha pagato il debito del peccatore e, risorgendo, ha vinto la morte. Per Atanasio, tutto ciò è stato possibile grazie alla solidarietà del corpo di Cristo con il nostro corpo.
Nel suo argomento a sostegno dell’incarnazione del Verbo, Atanasio introduce la “prova” che la resurrezione di Cristo è vera e che la morte è effettivamente sconfitta. Diversamente dalla teologia medievale che ricorreva ad argomenti filosofici, Atanasio scrive che la prova dell’esistenza di Dio e della verità dell’opera di Cristo sono le vite dei cristiani e, in particolar modo, come affrontano la morte.
Scrive Atanasio: “ecco una prova non piccola che la morte è stata distrutta e che la croce è stata una vittoria su di lei: tutti i discepoli di Cristo la disprezzano e non la temono più … una volta, prima della divina venuta del Salvatore, tutti piangevano i morti come se fossero perduti; mentre da quando il Salvatore ha risuscitato il suo corpo, la morte non fa più paura, ma tutti quanti credono in Cristo sanno che morendo non periscono e continuano a vivere e divengono incorruttibili mediante la risurrezione” (pp. 84-85).
Il punto è che la prova non risiede in un ragionamento filosofico, ma nel modo in cui i credenti si atteggiano di fronte alla morte. E’ come moriamo che dice cosa crediamo. E’ come ci avviciniamo alla morte che prova se il vangelo in cui abbiamo creduto è vero. Per Atanasio, questa è la prova convincente. Le altre prove che portiamo possono essere utili ma possono essere anche retoriche e, se messe alla prova, rivelarsi astratte. Invece, davanti alla morte, riveliamo a quale vangelo (=buona notizia) ci siamo affidati.
Il contesto a cui Atanasio si riferisce non è solo quello della morte di vecchiaia, ma della morte per martirio a cui i cristiani erano ancora soggetti all’inizio del IV secolo. I cristiani muoiono per malattia o a causa della persecuzione: possono essere vecchi o giovani, donne o uomini. In ogni caso, la affrontano sapendo che Cristo è morto e risorto e che la morte non ha l’ultima parola. “Cristo stesso ha riportato queste vittorie contro la morte riducendola all’impotenza” (p. 87). Perciò, il loro modo di affrontare la morte è una “prova non piccola” di tutto ciò.
Siamo molto lontani dal linguaggio sofisticato delle prove dell’esistenza di Dio tipico del Medioevo cristiano. Per Atanasio, è la vita cristiana la prova provata ed è il modo cristiano di morire la prova suprema che Dio si è incarnato nel Verbo, morto e risorto. Le prove filosofiche sono appannaggio di pochi credenti in grado di maneggiare concettualità complesse, ma la prova della vita di fronte alla morte è alla portata di tutti i cristiani. Possiamo anche fallire nell’argomentare le “cinque vie” in modo adeguato, ma peggiore è non onorare la Parola fatta carne nel prepararci a morire per incontrare il Signore vivente, in vista della resurrezione. Su questo la nostra testimonianza sta in piedi o cade.
Se non ci avviciniamo alla morte alla luce dell’incarnazione della Parola, il nostro cristianesimo rischia di inciampare sulla prova più necessaria che dobbiamo dare della nostra fede. Certamente, la fine della vita può essere accompagnata da stati di sofferenze e patologie che possono far perdere lucidità e orientamento. Nella consapevolezza della complessità del morire, bisogna comunque ritenere il centro di quello che Atanasio dice: “dimmi come muori e ti dirò se credi e in Chi credi”.